Squarci | domenica 29 aprile 2012
Valerio Bruner
Compagni di classe
Aprì gli occhi. Una lampadina dondolava in modo ipnotico dal basso soffitto, illuminando a malapena uno scantinato umido e freddo.
Si sentiva debole, spossato, come se avesse dormito per un’eternità. Provò a muoversi, ma la corda che lo teneva legato alla sedia glielo impedì. Diede uno strattone, ma fu inutile.
Dove mi trovo?
“AIUTO!” urlò con quanto fiato aveva in gola.
Silenzio.
Avvertì la paura farsi strada tra le sue viscere, poi qualcosa lo punse dietro la nuca e sprofondò di nuovo nell’oscurità.
***
In lontananza una voce cantilenante lo stava chiamando per nome “Sveglia Marco, svegliati, da bravo.” Un pizzico alla guancia lo riportò alla realtà.
Si ritrovò disteso su una poltrona da dentista, un fascio di luce bianca puntato dritto in faccia. Con la coda dell’occhio intravide un uomo in piedi alla sua destra. Indossava un camice bianco e una di quelle mascherine che si usano per operare appesa al collo. Gli si avvicinò e gli sorrise: denti bianchi e perfetti.
“Bentornato.”
“Dove mi trovo? Chi sei?”
“Shhh… Non agitarti. Le domande dopo, ora apri la bocca coraggio.“
Anche se avesse voluto opporre resistenza, sarebbe stato tutto inutile. Il suo corpo non rispondeva ai comandi.
“Qui abbiamo una bella carie. Fa male?”
Il dolore fu indescrivibile, pari ad una scarica elettrica, che partì dal cervello e si diffuse rapida per tutto il corpo.
“Va bene, va bene. C’è bisogno di un’otturazione. A questo provvederemo dopo, ora le domande. Allora, vuoi sapere chi sono? Mi deludi, pensavo mi avessi riconosciuto.”
Si tolse i guanti e si sedette accanto a lui.
“Classe V B anno 1990/1991 ti dice niente? Ultimo banco a sinistra.”
“Come? Di cosa stai parlando?”
“Andiamo fai uno sforzo. Mi riconosci così?” disse inforcando un paio di occhiali con la montatura nera e spessa.
Socchiuse gli occhi per mettere a fuoco un viso che gli pareva familiare.
“Calligaris!? Giuseppe Calligaris!? Sei tu?”
“Bravo Marco, bravo! Mi hai sorpreso! Ti ricordavo più stupido, come quando stavi in piedi alla lavagna e non riuscivi a risolvere gli algoritmi. Eppure hai fatto strada. Sei diventato un affermato avvocato, non è vero?”
Come faceva a saperlo? Non vedeva Calligaris da decenni, se ne era dimenticato come avviene per quelle persone di cui non ci si ricorda mai il nome. Finito il liceo ognuno aveva intrapreso la propria strada, e di certo nessuno si era soffermato a pensare a cosa avrebbe fatto dopo la maturità quel ragazzo seduto all’ultimo banco.
“Da quanto tempo mi trovo qui?”
“E’ una settimana più o meno. Dovresti sentire i telegiornali, sono tutti in pensiero per te. Scomparso l’avvocato Marco Soleri. Toh, dai un’occhiata qua!”
Gli mise sotto gli occhi un quotidiano datato 8 aprile 2012, in prima pagina c’era una sua fotografia e sotto a caratteri cubitali la scritta SCOMPARSO. Un pensiero andò a Marta e alla piccola Francesca.
“Che cosa vuoi da me Calligaris? Lasciami andare!”
Cercò di non far trasparire la paura che provava in quell’istante, temendo che, se avesse mostrato la propria debolezza, il suo aguzzino si sarebbe accanito maggiormente contro di lui.
“No, non funziona così e non alzare la voce altrimenti mi vedrò costretto a strapparti la lingua.”
“Che cosa vuoi da me?”
“Permettimi di rispondere al tuo quesito con un’altra domanda: ti ricordi di Laura Graziano? Secondo banco sulla destra, capelli biondi.”
“Laura Graziano? Sì me la ricordo, ma cosa c’entra con me?”
“C’entra eccome! Me la portasti via tu!”
“Io cosa!?”
“Sì tu con quell’aria da belloccio pieno di sé. Ero innamorato di lei, ma quando glielo dissi lei mi scoppiò a ridere in faccia! Rispose che stava uscendo con te! Maledetto! Non hai mai avuto rispetto dei sentimenti altrui! Sempre lì, pronto a mostrare il pisello alla prima che ti facesse gli occhi dolci.”
Un tic improvviso gli fece sbattere nervosamente la palpebra sinistra.
“Che cosa vuoi da me Giuseppe?”
“Voglio giustizia.”
“Giustizia? E per cosa?”
“Per avermi rovinato la vita! Tu e tutti gli altri mi avete sempre considerato una presenza imbarazzante, un parassita indegno della vostra amicizia. E’ solo colpa tua, se ti ritrovi qua, mi ci hai costretto tu. Fra tutti i ragazzi della V B tu eri l’unico che ammiravo ed io lottavo ogni giorno per essere come te. Ma tu niente, mi hai sempre evitato come si fa con un appestato. Non te n’è mai fregato nulla di me! Vi chiudevate in cerchio e mi lasciavate fuori! Più io cercavo di assomigliarvi, più voi mi schernivate e quando mi portasti via Laura giurai che te l’avrei fatta pagare. Che ve l’avrei fatta pagare a tutti prima o poi. Così ho atteso, nascosto nel buio della mia invisibilità, ti ho visto fare carriera, farti una bella famiglia e una bella casa in centro prima di colpire. A proposito come sta tua figlia Francesca? Quanti anni ha adesso? Quattro, cinque? So più cose su di te di quante ne possa sapere tua madre, amico mio. Sei andato troppo avanti e non è giusto. Non si può sempre vincere, devi imparare a perdere, provare l’umiliazione della sconfitta, come ho fatto io per tanti anni.”
“Tu sei pazzo.”
“NO! NO! NO! Non sono pazzo, non fare lo stesso sciocco errore che hanno commesso gli altri.”
“Gli altri? A chi ti riferisci?”
“A loro” disse mostrandogli una vecchia fotografia sgualcita. Era uno di quegli scatti per il giornale scolastico, la didascalia nell’angolo in basso a destra diceva “CLASSE V B ANNO 1990/1991”. Sedici ragazzi, le donne avanti e gli uomini dietro. Sui volti di ognuno di loro era stata disegnata una X rossa.
“Che cosa gli hai fatto?”
“Lo stesso che farò a te.”
“Lasciami andare brutto bastardo!”
“Sei ancora troppo nervoso Marco e questo non va bene. Ti farò solo più male se ti agiti. Rilassati adesso.”
Sentì il medicinale scorrere deciso nelle vene. Le forze lo abbandonarono velocemente, le palpebre si fecero sempre più pesanti. L’ultima immagine che vide, prima di perdere i sensi, fu quella di un volto pallido ed emaciato in mezzo a tutti quei ragazzi sorridenti. Era l’unico a non sorridere.
Dalle tenebre vide emergere una vecchia zoppicante con una gobba spaventosa. Era ricoperta di stracci e danzava lascivamente mentre si strappava delle aspidi dai capelli e glieli gettava in faccia. Aveva un trapano in mano ed il rumore era assordante.