Squarci | domenica 22 aprile 2012
Valerio Bruner
La Ballata del Drago e del Leone
La città era deserta. Nessuno si arrischiava a camminare per Inverness in quei giorni dopo quanto era successo a Culloden. I superstiti erano stati fatti prigionieri e mandati a morire nelle carceri buie di Londra e York, mentre quelli sfuggiti alle razzie e agli stupri, si erano diretti a nord verso le fredde catene montuose. Pochi erano rimasti – donne, vecchi e bambini principalmente – e ne avevano pagato il prezzo. I loro corpi lividi e gonfi giacevano ora per le strade in balìa delle intemperie e preda dei cani randagi. Il fiume Ness scorreva silenzioso. Piccole onde metalliche si infrangevano sulla riva erbosa. Il vento ululava gelido tra le fronde degli alberi. Inverness era diventata un luogo tetro sul quale incombeva l’ombra della morte. L’unica traccia di vita proveniva dal The Clansman, una piccola locanda a lato della cattedrale di St Andrew, dalla quale si sentiva un trambusto indefinito di voci umane, canti e boccali che cozzavano tra di loro. L’insegna, raffigurante un guerriero scozzese in abiti tradizionali, era stata divelta e gettata al suolo. Giaceva là impallinata e intrisa di piscio. Il corpo nudo di un ragazzo, le fattezze del volto alterate dagli spasmi della morte, penzolava dal ramo di un albero poco più avanti. Gli erano state mozzate mani e piedi.
Varcando la soglia della locanda si era investiti dalla puzza acre della birra mista a quella ancor più disgustosa del vomito. Qui una ventina di soldati del IV Reggimento di Fanteria di linea di Sua Altezza Reale il Duca di Cumberland si era riunita ancora una volta per celebrare la vittoria dell’esercito inglese sugli uomini dei clan. Nei giorni successivi alla battaglia avevano messo a ferro e fuoco la città, stuprando le donne e uccidendo quelli che opponevano resistenza. E ora cantavano ubriachi mentre il vecchio locandiere si affannava a riempire boccali di birra scura, senza mai distogliere lo sguardo dalle sue due figlie che servivano i soldati. Aveva cercato di mandarle via ma Richard il Toro glielo aveva impedito e ora l’uomo era costretto a sopportare in silenzio i commenti e le molestie che la truppa riservava alle ragazze. Erano trascorsi già tre giorni dal combattimento ma stavano ancora festeggiando come se tutto fosse accaduto quella mattina stessa. Era stato uno scontro memorabile, così aveva detto il Tenente Colonnello Rich guardando gli scozzesi superstiti fuggire a gambe levate prima che venissero raggiunti e falciati dai Dragoni di Lord Mark Kerr. La verità però era un’altra, Dick lo sapeva ma allo stesso tempo si guardava bene dal parlarne con i suoi compagni d’arme.
Era seduto su una panca insieme a George e William, quest’ultimo talmente ubriaco che non riusciva a finire una frase senza vomitarsi addosso. Lo guardava e
non poteva fare a meno di sorridere. Dopotutto se non fosse stato per lui a quest’ora il suo amico sarebbe morto, il petto squarciato dallo spadone di uno di quei montanari. Ricordava bene la scena, impressa vivida nella sua memoria. William che perdeva il fucile di mano, il bestione barbuto che lo sovrastava sollevando una lama gigantesca. Tutto era durato il tempo di un respiro. Aveva intercettato il colpo di spada che calava sul suo compagno colpendo poi lo scozzese in faccia con il calcio del fucile. L’avversario era caduto in ginocchio frastornato dal colpo mentre William si rialzava, i calzoni fradici di piscio. Non avrebbe mai più dimenticato lo sguardo di terrore che aveva letto negli occhi dell’uomo mentre gli affondava la baionetta nella gola. La lama aveva attraversato muscoli e carne squarciando la giugulare. Il guerriero scozzese, un attimo prima così spavaldo e imponente, si era accasciato al suolo portandosi le mani alla gola quasi a voler fermare l’emorragia, gli occhi sbarrati nella lenta agonia che precede la morte. Poi una seconda salva di moschetti e il suo corpo era scomparso in una nube di zolfo. Fu riportato alla realtà da William che gli stava urlando nelle orecchie, tirandolo per la manica della giubba.
“Amico mio” disse sollevando il boccale “ brindo alla tua salute! A Dick che mi ha salvato dalla mannaia di un chiavapecore!”
“A Dick e alla nostra vittoria!” gli fece eco George.
Bevve anche lui. La birra era densa, forte e aveva un sapore orribile. Iniziava a girargli la testa. Si voltò ad osservare i suoi compagni d’arme, i soldati del IV, l’unico Reggimento ad aver incrociato le armi con i temibili Highlanders. La maggior parte di loro era alla prima battaglia, molti non avevano mai imbracciato un fucile prima di allora eppure avevano vinto. Ma non per merito loro. Vide Robert il Toro, un gigante dai capelli corvini e la mascella squadrata, intento a fare a pugni con Jonathan, soprannominato lo Sterminatore di scozzesi per quanti ne aveva uccisi quel giorno. Il ragazzo aveva abbattuto il capo del clan MacGillyvrays e ora se ne andava in giro ostentando una Claymore alta quanto lui. Dick si chiedeva se il confronto avesse avuto il medesimo esito se Jonathan non avesse avuto il moschetto dalla sua. Non riusciva a partecipare di quell’euforia, forse perché sapeva che i veri coraggiosi erano loro - gli Highlanders - i cui corpi giacevano ora ammassati in qualche fossa comune.
Ricordava il loro urlo di battaglia mentre si lanciavano alla carica armati di spada e scudo, i loro volti, gli sguardi così pieni di odio. Non si erano fermati nemmeno dopo che la prima salva ne aveva uccisi la metà, avevano continuato ad avanzare. Se lo scontro si fosse svolto all’arma bianca li avrebbero massacrati, Dick ne era certo. Avevano vinto solo grazie all’artiglieria che aveva decimato gli scozzesi
ancora in piedi. Improvvisamente gli venne in mente Robin, un ragazzo con cui aveva stretto amicizia durante la marcia verso Nairn. Aveva quattordici, forse sedici anni e per tutto il tragitto non aveva fatto altro che parlargli della sua casa a Brighton e dei gabbiani che al mattino sorvolavano l’oceano alla ricerca di cibo. Robin era morto piangendo, dopo che uno scozzese giovane quanto lui gli aveva squarciato il ventre con un’ascia. Il ragazzo era crollato al suolo cercando di contenere le viscere che gli fuoriuscivano dalla ferita. Poi qualcuno gli aveva sfondato il cranio con una mazza ferrata e le grida di dolore erano terminate. Di notte poteva sentire ancora l’eco delle urla di quel ragazzo che desiderava solo ritornare alla sua casa in riva all’oceano.
Alzò il boccale e silenziosamente brindò a Robin e a quelli come lui caduti sul campo di battaglia di Culloden. Stava per ordinare dell’altra birra quando notò tre uomini fermi sulla soglia della locanda. Indossavano mantelli lunghi e logori, i volti nascosti dai cappucci per ripararsi dalla pioggia martellante. Uno portava una cetra a tracolla mentre gli altri due reggevano dei grossi tamburi. “Devono essere dei cantastorie alla ricerca di qualche moneta per pagarsi da bere” pensò Dick “e con il trambusto che viene dalla locanda hanno pensato bene di racimolare qualcosa”. Li vide scambiare due parole con il locandiere che gli indicò una panca accanto al focolare. In un’altra vita avrebbe imparato a suonare la cetra. Era meglio essere un cantastorie che un soldato. Mentre ci rifletteva su, il più alto dei tre balzò in piedi su un tavolo scaraventando a terra intere caraffe di birra che andarono a frantumarsi al suolo. Sotto gli sguardi perplessi dei presenti si schiarì la voce ed esordì:
“Prodi guerrieri qui riuniti, grandi storie si cantano su di voi per la Scozia tutta! Da Edimburgo a Inverness non c’è uomo che non tremi all’udire delle gesta del IV Reggimento di Fanteria e del suo comandante, il prode Sir Robert Rich! Brindo a voi dunque eroi di Culloden!”
La sue parole avevano attirato l’attenzione di tutti soldati – almeno di quelli che ancora non si erano addormentati con la faccia nel vomito – che si girarono a guardare l’uomo misterioso che le aveva pronunciate.
“Chi diavolo sei?” lo apostrofò Stephen il Guercio asciugandosi la bocca con la manica della giubba “Sei per caso uno di quegli straccioni in gonnellino che ha voglia di crepare?” e gli scaraventò contro il boccale mancando di gran lunga il bersaglio. In compenso centrò alla testa una delle figlie del locandiere facendola cadere insieme al vassoio che stava portando. La scena fu salutata da una risata generale, che divenne ancora più forte quando il padre, per soccorrere la figlia, scivolò sul pavimento inzuppato di birra e vomito.
“No coraggioso Stephen Terrore di donne e bambini” proseguì l’incappucciato come se nulla fosse successo “sono solo un umile cantastorie che ha composto una ballata in onore della vostra vittoria.”
Da sotto il cappuccio Dick intravide un sorriso beffardo. “Vi chiedo solo che prestiate attenzione e che se il canto sarà di vostro gradimento ci farete dono di una moneta. In caso contrario incatenateci pure e gettateci in una segreta!” E prese la cetra che giaceva accanto al focolare.
“Se non la smetti di berciare cantastorie ti strappo via le palle e te le faccio ingoiare” irruppe Paul, un uomo basso e tarchiato dal labbro leporino e il mento sfuggente “canta ora!”
“Ai vostri ordini messere” disse di rimando il misterioso menestrello divertito dalla reazione del soldato. Quindi pizzicò le corde dello strumento e iniziò a cantare, accompagnato dal suono dei grossi tamburi.
La Ballata del Drago e del Leone
Se mai un giorno per questi verdi campi ti ritroverai,
all’ombra di quella fronda siediti ad ascoltare.
Voci da lungo tempo sopite per te torneranno a cantare.
Un canto antico di anime prodi che per amor di libertà
da questa vita anzitempo si dipartirono.
Ti canteranno di un addio alla rocciosa dimora
dove una donna attende e nell’attesa non è sola.
Ti canteranno di occhi innocenti che a caro prezzo
impararono come il coraggio l’animo possa abbandonare.
Ti canteranno della fiamma che l’acciaio non può soffocare
perché quando dei padri il sangue verranno a macchiare
altro sangue sarai chiamato a versare.
Improvvisamente i tamburi presero a suonare ad un ritmo sempre più cadenzato e profondo, che ricordava la marcia militare scozzese. Dick vide il cantore poggiare la cetra sul tavolo. Qualcosa non tornava, un dubbio che però i suoi compagni non sembravano condividere dal momento che si limitarono a ridere sguaiatamente, scambiandosi sguardi divertiti. Nessuno accennò a reagire e il cantastorie proseguì assumendo un tono solenne.
Udite il canto dell’eroe tradito
che dal solitario ponte mille e più ne respinse.
Udite il ruggito del leone
che ben più fiero del drago è da domare.
Ascoltate il lamento della pietra che paziente attende
di tornare i re ad incoronare.
E imparate al fine che di libertà il canto
non si può dimenticare
finché i suoi eroi lo seguiranno a cantare.
Finché il sole splenderà su questi verdi campi
e qualcuno di nuovo si siederà ad ascoltare,
nemmeno la Morte le gesta umane potrà cancellare.
I tamburi tacquero.
Ciò che accadde in seguito gli apparve sfocato e distorto, come se stesse osservando la scena in lontananza attraverso una finestra. Dick vide l’anziano oste andare verso la porta della locanda e chiuderla a chiave. Fu solo allora che capì. Il primo a cadere fu Stephen il Guercio, la testa spaccata in due da un’ascia lanciata dall’uomo che suonava il tamburo. Questi corse poi verso Jonathan impugnando una daga e urlando qualcosa come Alba gu Brath (espressione in gaelico che significa Scozia per sempre) . Lo Sterminatore di scozzesi era troppo ubriaco e malfermo sulle
gambe per reagire e morì soffocando nel suo stesso sangue. Paul che gli sedeva accanto impugnò la terzetta puntandola verso l’assalitore, ma il cantastorie - un uomo gigantesco armato di un enorme spadone a due mani – gli staccò la testa prima che potesse premere il grilletto. George nel frattempo aveva cercato di raggiungere la porta, ma era stato abbattuto da un colpo di mazzafrusto al cranio sferratogli dal terzo Highlander. Uno ad uno tutti i soldati del IV Reggimento di Fanteria di linea caddero sotto i colpi mortali dei guerrieri scozzesi, troppo ubriachi e arroganti per cogliere le velate minacce di un semplice cantastorie. La sorte peggiore era toccata a Robert il Toro, trafitto alle spalle da una delle figlie dell’oste che impugnava un grosso spiedo da cucina. Dick rimase immobile, la paura gli aveva attanagliato il cuore mentre i suoi compagni venivano massacrati sotto i suoi occhi. Il pavimento della locanda era rosso di sangue.
I cadaveri vennero privati dei genitali che furono raccolti e sistemati in delle ceste di vimini. I loro corpi straziati e mutilati furono poi ammassati nella locanda che venne data alle fiamme. A Dick gli scozzesi non riservarono lo stesso trattamento. Gli risparmiarono la vita perché potesse tornare in Inghilterra con le ceste contenenti le virilità dei suoi compagni da mostrare come monito a sua maestà Giorgio II d’Inghilterra affinché sapesse che in Scozia il canto di libertà non era stato ancora dimenticato. Di lui non si seppe più niente.
Ma cari lettori, non affannatevi a cercare documenti che narrino di questo episodio. La versione ufficiale è che dopo la battaglia di Culloden fu proibito in Scozia l’uso del gaelico, così come del kilt e della cornamusa. Gli storiografi si limitano a riportare gli atti di cruenta repressione perpetrati dal Duca di Cumberland, che fu così spietato verso il popolo scozzese da guadagnarsi l’appellativo di Billy il Macellaio. Ma nessun documento ufficiale o libro di storia menzionerà mai che la reazione inglese fu la risposta a quello che accadde la notte del 19 aprile 1746, nella piccola locanda sulla sponda occidentale del fiume Ness, dove tre poeti guerrieri sterminarono i prodi soldati del IV Reggimento di Fanteria inglese.