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Ciao! Mi vedi? Sono qua! Ehi! Ehi, ehilà! Dove sei? Oh, adesso ti ho visto! Bene, ciao! Non so se mi riconosci, perché magari non mi hai mai notato, ma comunque buongiorno, sono la signora con le cuffie. Ma sì, dai, in fondo ci incontriamo ogni mattina! Tu corri sempre e vai di fretta, ma io ti conosco bene… sono sicura che adesso stai ricordando.
Che cosa dici? Cosa faccio ogni mattina con quelle cuffie argentate grosse in testa e quel giaccone rosa shocking? Aspetta un attimo, ripeti? Ah. La risposta è… forse potrà sembrare un po’ strano, ma io… oh, ma come posso spiegare?
Nella Piazza ci sono sempre dei tipi abbastanza strani; un vecchio pazzo rimbambito, due tipi che usano l’ombrello anche quando non piove, una ragazzina veloce quanto lenta con un trolley blu, qualche padrone di cane… camminare lì la mattina è come assistere a un teatrino. Io passo di lì tutti i giorni. Non abbandono mai il mio teatro; esco di casa con la mia amica Mia e il suo bambino e li accompagno, poi loro proseguono oltre (non amano andare a teatro, loro). E così, finalmente, posso stare da sola. Che pace! Faccio partire la musica e avanzo a grandi falcate. Mi guardo attorno: alberi, uccelli, la grande chiesa, margherite! Il teatro della Piazza dura il tempo di una canzone. Prima non ero precisa e mi capitava di andare più o meno lentamente; ma ora sono esperta. Quindi, finita la canzone si conclude anche la magia, ma beh… non è finita lì.
Corro, attraverso strade, piazze, prendo autobus al volo, taxi (quando ne vedo uno solitario), chiamo e rispondo al telefono, cambio mascherina (prima di stoffa, poi chirurgica nera, poi bianca poi azzurra, poi una FFP2…), vado addosso alle persone (sono sovrappensiero!). Tante frenetiche attività. Ma nessuno è più tranquillo di me, nessuno all’infuori di me si può permettere tutto ciò!
Da sempre assorbo l’allegria degli altri per poterla usare. Non rubo allegria, non fraintendermi. Assorbo e condivido. Durante le mie attività frenetiche (che servono solo per coprire quelle che realmente mi occupano) lascio in giro dei bigliettini scritti a mano. Li lascio lì, un po’ dove capita, e poi torno a riprenderli la sera. Quando arrivo nel mio studio, li raccolgo e li sistemo nella cartellina del giorno. A che serve? Che c’è scritto? Scusami, non capisco… - Risata brillante come il suo giaccone - Te l’ho detto. Prendo allegria dai luoghi e dalle persone. Con i biglietti (e ti giuro, non importa cosa c’è scritto) dissemino parti di me per poterle riprendere piene di vitalità, grazie alle persone che le hanno vissute. I miei sono biglietti assorbenti. Sono magica, eh?
La signora con le cuffie
Arianna Panza
Squarci
La sera della Vigilia di Natale, sul marciapiede fuori dal palazzo, Lea vide un grosso furgone da cui due strani tipi stavano scaricando pacchi. Traslocavano. Constatò che avrebbero avuto ancora un bel po' da lavorare, perché sul pianerottolo del secondo piano, davanti alla casa vuota, c'erano al momento solo un paio di vecchi materassi ingialliti. Non era riuscita a sbirciare nel furgone e non poteva quindi immaginare chi sarebbe venuto ad abitare in quel vecchio palazzo. "Buona notte e buon Natale!", pensò ridendo, poi corse su per l'ultima rampa di scale ed entrò in casa. Faceva freddissimo, Lea immaginò il gelo che ci doveva essere nella casa del secondo piano, vuota da chissà quanto tempo. Si chiuse nella sua stanza aspettando che la cena fosse pronta.
Lea non pensava mai agli altri, ma quei due tipi che avevano l'intenzione di traslocare la sera della Vigilia la incuriosivano parecchio. Provò a concentrarsi su qualcosa, cominciò a guardarsi intorno e a studiare la sua camera (sì, come se non ci fosse mai entrata), ma la sua mente non ne voleva sapere di cancellare quella buffa immagine. Allora prese un foglio e cominciò a disegnarli. Poi, a un tratto...
- Ahahaah! Ahahahahah! Ahahah!-
Sentì delle risate delicate. Qualcuno rideva di gusto. Era improbabile che provenissero da casa sua, anche se i suoni erano chiarissimi. E in quel palazzo, poi, chi poteva essere allegro in quel modo? Lea mise da parte il foglio e la matita e cercò di capire da dove venissero quelle voci. Alzandosi dalla scrivania si chiese da quando fosse così interessata a sapere che cosa facessero le altre persone, ma cancellò quel pensiero. Si muoveva per la stanza in silenzio. Le risate cessarono e per un momento tutto tacque, poi dopo pochi secondi ci fu un urlo fortissimo e le risate ricominciarono, molto più potenti di prima. Ora Lea aveva capito. Si stese per terra e appoggiò l'orecchio al pavimento. Sì! Le voci venivano dal secondo piano. Nella posizione in cui era le sembrava di poter toccare quelle risate, tanto erano chiare e vicine. Restò in ascolto; aveva il fiato sospeso. Due bambine cominciarono a parlare vivacemente. Lea le ascoltò; non si rese conto per quanto tempo, potevano essere cinque minuti, poteva essere mezz'ora. Quando si rialzò aveva un sorriso enorme stampato in viso. Si sentiva benissimo, ma non sapeva il perché. La madre la chiamò, la cena era pronta.
Il giorno di Natale Lea si svegliò presto, perché qualcuno piangeva. Tornò con l'orecchio in terra e ascoltò un animato litigio tra le bambine. Urlavano e piangevano in continuazione. Lea immaginò come dovevano essere le due sorelle (ma erano sorelle?) e cominciò a divertirsi pensando per quale sciocco motivo stessero litigando in quel modo. Le ascoltava ed era come se avesse fatto un buchino nel pavimento e potesse vederle. Non se ne rese conto, ma rideva sotto i baffi. A un certo punto nella scena subentrò una voce adulta, -la madre, immaginò- che cominciò a urlare, richiamò le bimbe e poi ci fu il silenzio. Doveva averle sgridate per bene! Lea l'ascoltatrice, però, da quel litigio aveva ricavato - o meglio, credeva di aver ricavato- un'importante informazione: il nome delle sue nuove vicine... Zebra e Laura. C'era qualcosa che non tornava in quei nomi, ma le piacevano, perciò decise che da quel momento così si sarebbero chiamate. E allora si sedette alla scrivania e disegnò. Disegnò e disegnò finché non ebbe finito; allora scrisse il titolo: "Zebra e Laura". Era certa che sarebbero diventate le sue "amiche del piano di sotto", ma non sapeva come mettere in atto la decisione; era così timida e inesperta!
Nei giorni successivi, mentre pensava a come presentarsi, continuò ad ascoltarle, e le sembravano ogni giorno più simpatiche, e ogni giorno si vergognava un po' di più. Maledetto il suo cervello complicato!
Ma poi prese una decisione. Mise il disegno che aveva fatto davanti alla porta del secondo piano, suonò il campanello e corse su per le scale come un razzo, di nuovo dentro casa. Si era già pentita: non sapeva neanche quanti anni avessero...dopo pochi minuti...
Dlin dlon!
Il campanello squillò, qualcuno aveva bussato alla porta! Il cuore di Lea impazzì. Andò ad aprire, ma non c'era nessuno, soltanto un foglio disegnato tutto stropicciato. La ragazza stava per prenderlo quando arrivarono di corsa due bimbe eccitatissime, che urlarono "Ciao! Comunque, io sono Petra e lei Lola!" e poi se ne andarono di corsa con urletti e schiamazzi. Richiuse la porta, era abbastanza confusa e non aveva capito niente. Però poi guardò il foglio che le avevano lasciato alla porta.
Tra mille scarabocchi, c'era disegnata una zebra. Lea si buttò sul letto e cominciò a ridere, risate chiare limpide; rise per minuti interi, forse ore.
Zebra e Laura
Arianna Panza
Squarci
“Mmmmm….. guarda là! No, non è lui. Ma dove sarà finito?” Trachetetrachetetrachetetrac. “Spero non sia morto. Sarà andato in vacanza. In pensione. Oh, eccolo. È vivo!”
Secondo giorno di pensione per il vecchio prof. Dopo quarant'anni in quel liceo, era finalmente andato in pensione; quarant'anni durante i quali aveva fatto sempre la stessa strada per arrivare a scuola...casa sua, Piazza Magenta, liceo. La Piazza era sempre stata per lui un passaggio; un passaggio che lo trasformava, la mattina come il pomeriggio, che gli faceva vivere cinque minuti di magia. E quindi quel giorno, il secondo giorno di pensione, non aveva resistito a passare comunque di là, non poteva evitare di farlo, troppo forte era il legame con quel percorso. Perciò si alzò alle sei in punto, come quando era ancora un giovane prof. (ma anche come quando era diventato "il Vecchio Prof.)" e cominciò a prepararsi. La sua routine mattutina era lunghissima. Dopo mezz’ora nel bagno si guardò allo specchio toccandosi i pelucchi rimasti dalla barba. Il suo riflesso sbilenco lo guardava male, quasi come se non fosse lui a controllarlo. C’era qualcosa di diverso che non tornava in quell’immagine. Non sopportava le sue spalle incassate nella schiena, il collo un po' storto, quella faccia seria che aveva davanti allo specchio. Chissà quante volte lo avevano definito storto, sbilenco... era così: alto, magro, con la faccia che spesso sembrava un po' rettangolare e le spalle, la schiena... sbilenche, appunto. Lui non sapeva neanche quando fosse diventato così, da quel che ricordava lo era sempre stato. Comunque non aveva tempo per pensarci, e quindi...si arrendeva a quella strana caratteristica. Il professore, caduto in un turbine di pensieri, si diede uno schiaffetto sulla guancia, sbuffò e uscì di casa. Subito, immergendosi nell’aria pungente del mattino, il malumore che si era annidato in lui scomparve.
“Ma non sappiamo come si chiama questo professore?” “Non è importante. Lo chiameremo semplicemente ‘Il Vecchio Prof."
Il Vecchio Prof. aveva una faccia diversa, gli mancavano parecchie cose, e inoltre non riusciva a respirare con quella mascherina sul naso. Quello che gli mancava di più era la sua borsa di pelle, rigida, non troppo grande, che aveva sempre portato con sé, caratterizzandolo: fin dal suo primo giorno in quel liceo. Per lui era come la borsa di Mary Poppins; ci metteva dentro di tutto, e i ragazzi sapevano bene che lì dentro il Prof. non teneva solo le loro carte, ma anche molte altre cose, ben più importanti e segrete. La borsa di pelle era un simbolo per tutta la scuola, una cosa che inquietava e al tempo stesso rassicurava tutti. Il professore la portava dappertutto, come se con il suo aiuto potesse registrare quello che gli accadeva. Ecco, quel giorno, il secondo giorno di pensione, la borsa era rimasta a casa. Al suo posto, il Prof. teneva in mano una borsa di pezza comprata in un supermercato; era vuota, completamente vuota, come lui.
Una borsa vuota che aspettava di essere riempita. Ma il professore non sapeva ancora di cosa. Stava camminando nel vialetto di ghiaia accanto alla Chiesa. Osservava i ragazzi e tutte le persone che andavano e venivano, tutti con una direzione precisa, lo sguardo rivolto in avanti, e pensava che non voleva essere in pensione. Perché, poi? Mentre pensava a tutte queste cose sentì un fremito provenire dal terreno. Andò nel panico. Pensò che fosse un terremoto, si pentì di non avere la borsa di pelle con sé, pensò alle prove antisismiche del liceo, sentì la borsa appesantirsi, si calmò. Sentì un’altra scossa. E di nuovo, la scossa scatenò la stessa serie di azioni e pensieri. Il Vecchio Prof. andò avanti. “Vecchio rimbambito che sono! Adesso ho anche le allucinazioni!” Stava per lasciare la Piazza per imboccare Corso Amedeo quando un’ultima scossa, più forte delle altre, lo costrinse a fermarsi. “Adesso basta. Giù.” Si sedette su una panchina e chiuse gli occhi. Non appena si calmò, accadde qualcosa di incredibile. Si sentì improvvisamente leggero, come se volasse, come se avesse bevuto litri e litri di Spritz (proprio lui, che mai aveva assaggiato un Campari!), come se fosse stavo svuotato da tutti i pensieri che aveva in testa. Allora capì che erano davvero tanti. E anche molto pesanti. Poi cominciò a galleggiare nel tempo, così, svuotato da tutto, tranne che dal suo corpo. Galleggiò nel tempo e arrivò alla prima volta che aveva attraversato quella Piazza. Almeno quarant’anni prima. La Piazza era giovane, come lui: anche un distratto si sarebbe accorto che era viva. Stessa cosa per sé stesso: si rivide allegro, non ancora sbilenco (ah, allora lo era diventato!), rivide la sua borsa; sembrava leggerissima, quasi vuota. Vedeva questo giovane prof avviarsi al suo primo giorno di lavoro, e guardandosi, guardando la borsa, sentiva una fitta fortissima. Poi tutto divenne sfocato, il galleggiamento nel tempo stava finendo; vide sé stesso chinarsi sul prato, esitare un momento, e poi tornare su con una margherita, la più bella di tutte. Bianca, perfetta. La mise nella borsa. E il ricordo finì.
Buio. Catapultato nel buio. Uno, due, tre secondi. Poi si riprese, ma aveva un fortissimo mal di testa. Si rialzò lentamente e riprese a camminare. Si sentiva meglio, ma aveva anche una terribile voglia di parlare. Allora cominciò a giocare con i pensieri più leggeri di sempre: osservò una farfalla, calciò un legnetto caduto in terra, sorrise. Poi fece una cosa che da tre anni rimandava: sorrise convinto, facendole capire che era rivolto a lei, a una ragazzina con un trolley blu. E raccolse una margherita.
Cominciò a correre, fortissimo, velocissimo, sempre di più, di più, di più... e cominciò a riempire la sua nuova borsa di pezza. Ringraziò la Piazza, che gli aveva restituito i suoi ricordi nascosti. Adesso non si sarebbe fermato più.
Il vecchio professore
Arianna Panza
Squarci
La mattina per andare a scuola esco di casa sempre alla stessa ora.
Conto i rintocchi delle campane della Chiesa, imponente in mezzo a Piazza Magenta: uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto. Alle otto la Piazza è sempre così silenziosa e apparentemente dormiente, ma non è così, ci vuole poco per sentire su di sé tutte le piccole storie che la attraversano. A quest’ora del giorno si lascia condizionare molto da chi la attraversa, si lascia vivere, ecco. Una piazza enorme, dominata da una Chiesa che mi sembra eternamente chiusa, ma che in realtà non lo è affatto. Ai lati della chiesa vialetti, prati e alberi. Lampioni, e qualche panchina sparsa qua e là. Attraverso questa Piazza, e ogni volta che lo faccio, in tutte le stagioni, entro in uno stato di calma e riflessione che nessun altro posto riesce a darmi. Vado a scuola da sola; sento solo il rumore leggero e monotono del mio trolley che avanza, e i miei pensieri che fanno un sacco di rumore per prendere posto nella mia testa. Il mio occhio si fa improvvisamente più attento, osserva tutto e tutti, trasmette immagini che immediatamente si trasformano in pensieri. Io sto zitta, ma non sento il bisogno di parlare: mi basta il dialogo confuso nella mia testa.
Incontro sempre le stesse persone: io le conosco, e ogni volta mi chiedo e spero che anche loro conoscano me. O sono forse l’unica che osserva i movimenti di questo posto? Cerco di pensare che non è così. Davanti alla Piazza, accanto al prato con l’erba alta (che è così alta che secondo me è abitata da serpenti), c’è sempre una ragazza con uno zaino eastpack rosso, rosso fuoco, e una crocchietta simpatica sulla testa. Aspetta le sue amiche e, mentre aspetta, si immerge nella musica che esce dalle sue cuffie. Penso che magari l’anno prossimo non le incontrerà più lì, le sue amiche, perché il liceo sarà finito. Continuo a camminare e mentre cammino vedo tutte le altre persone con cui condivido ogni mattina la piazza. C’è una signora (inglese, forse?) vestita tutta di jeans, con delle cuffie enormi in testa, che saluta qui ogni mattina la sua amica con un bambino piccolissimo. Arrivano da via Demi, magari abitano insieme: poi qui si salutano e la signora con le cuffie corre via. Tratartaratratratratratrata. A volte mi chiedo se il rumore del mio trolley disturbi la quiete indaffarata degli abitanti della Piazza, ma poi mi dico che no, non è possibile: ormai fa parte della normalità, come gli uccellini che cinguettano o i cani che abbaiano. Tutto è così immobile e perfetto.
L’incanto purtroppo svanisce presto, ed entro in un’altra realtà: quella della via più silenziosa che io conosca, via Demi. Qui non passa mai davvero nessuno, a parte una coppia di signori. Lei è altissima, i capelli biondi e ricci e una faccia austera, lui sembra il suo assistente, anche se probabilmente è suo marito. È basso, pelato, cammina ondeggiando e non parla mai. Ma nemmeno lei parla, evidentemente anche le loro menti esplodono come la mia e si dimenticano l’uno dell’altro. Quando piove, lei sta sotto un grande ombrello a scacchi, e lui la segue ondeggiante, sottomesso. Ci sono poi le persone che non vedo più, e di cui immagino le storie: c’era un vecchio professore del Niccolini, tutto storto e gobbo, che passava per Piazza Magenta con la sua borsa in pelle da vecchio prof.: spero che non sia morto, che sia andato solo in pensione. Poi c’erano i ragazzi del liceo che ripetevano con i libri in mano, adesso non ci sono più. Sono all’università? E per ultime, due bambine con la madre di cui tutte le mattine ascoltavo di soppiatto i discorsi: ora gli orari scaglionati dell’entrata a scuola non lo permettono. Erano le uniche ad andare nella mia direzione. Tutti gli altri mi vengono incontro, vado controcorrente.
Sono le otto e dieci, comincio ad avvertire con tristezza che la magia sta per svanire: devo prepararmi a entrare in un’atmosfera completamente diversa. Sento dentro di me che la bolla sta per scoppiare, che potrò entrarci di nuovo solo quando ripasserò di qui, di ritorno da scuola; e comunque non sarà uguale. L’anno prossimo mi mancherà non incontrare queste persone e non provare questa sensazione sviluppata nei tre anni delle medie. Già ora, a pensarci, divento un po’ triste. L’unica cosa che spero è che magari qualcuna delle persone che sono diventate mie amiche “di piazza” mi abbiano notata e si ricordino di me. Solo questo renderebbe tutto diverso. C’è un’ultima cosa che il mio occhio vede prima di finire nel caos... una coppia inseparabile, affacciata all’unica finestra aperta di via San Gaetano: una vecchia signora con il suo vecchio cane. Osservano i bambini che urlano e che passano tutti i giorni sotto casa loro. Hanno lo stesso sguardo placido. Non hanno bisogno di parlare. Chissà cosa pensano. Chissà.
Piazza Magenta
Arianna Panza
Squarci
C’è un mondo intero di cui ignoriamo l’esistenza. Siamo sicuri di conoscere quello abbiamo intorno, eppure ci sbagliamo. C’è qualcosa di molto più profondo e sotterraneo in ogni cosa. Possiamo divertirci a esplorarlo e scoprirlo o lasciarlo al suo posto, senza approfondir lo. Ma, in ogni caso, quel qualcosa resta e resterà per sempre lì, dove l’abbiamo lasciato.
Napoli ha un intero mondo sotto di sé. È un mondo fatto di cunicoli, acquedotti, caverne, gallerie. In superficie, sono scontate le luci, i colori, i rumori. Basta scendere qualche gradino e tutto questo sparisce. Buio. Soltanto qualche rara lanterna, messa da chi questo mondo l’ha esplorato. Si arriva in una vasta caverna. La guida con le sue parole mette paura e qualcuno, spaventato, torna su in superficie, tra i colori. Certo, mette paura il mondo buio.
Passando in un cunicolo, si arriva in un’altra cavità. Al soffitto è appesa una bomba. È come sentire le grida della gente, le sirene d’allarme che annunciano i bombardamenti, l’ansia di non sapere se si tornerà su. Correre, scappare. Prendere, avvisare. Tutto lì sotto. Per proteggersi dai bombardamenti della Seconda guerra mondiale le persone si rifugiavano in queste caverne, che un tempo avevano fatto parte di un enorme acque dotto che attraversava tutta Napoli.
Continuiamo nel percorso. Come gli operai dell’acque dotto, noi camminiamo attraverso i cunicoli un tempo riempiti d’acqua.
Mille fiaccole, mille timide lucine si fanno luce nella parte più buia di questo magico mondo.
La seconda parte del percorso è la più difficile. Attraversiamo cunicoli stretti meno di cinquanta centimetri con le fiaccole sopra la testa. Camminiamo lateralmente, in fila indiana. Qui solo le nostre fiaccole illuminano la via, perché la galleria è così stretta che non ci sarebbe spa zio per le lanterne. L’unico modo per affrontare questo cunicolo è continuare senza guardare né avanti né in dietro, senza pensare di essere sottoterra, senza possibilità di uscita. Immagino chi doveva lavorare qui sotto. Era solo, completamente solo. Non poteva sapere se sarebbe sopravvissuto o se sarebbe rimasto lì, inghiottito dalla terra e dall’acqua. Ma continuava, non si arrendeva. Anche noi continuiamo, impavidi e sicuri. A un certo punto, una parola passa da un capo all’altro dell’ultima parte della fila: bivio. Dopo un momento di tremenda paura, capiamo che la strada in realtà è solo una, e continuiamo. Ma davanti a noi, invece della strada, c’è una catenella. Gambe che tremano. Il mio cuore sembra scoppiare. “Guida! Guida!” La risposta della guida è vicina, e questo ci fa preoccupare ancora di più. Ci siamo persi. La guida continua a urlare. Alla fine, riusciamo a trovare la strada e raggiungiamo il resto del gruppo. Otto piccole fiaccole si erano perse, eppure nessuno se ne era accorto. Il cunicolo stretto è finito e dopo qualche cisterna ancora piena d’acqua, torniamo in superficie. Le fiaccole si spengono. Hanno svolto, ancora una volta, il loro indispensabile lavoro, guidando i curiosi alla scoperta delle magie del loro mondo sotterraneo. Tutto, giù, torna deserto. Si possono sentire solo gli echi di chi ci è stato dentro: l’acqua, le persone bombardate, le loro storie, e adesso anche noi. Torniamo su, nel mondo esplorato, dove tutto è conosciuto e niente è un mistero. Perché il vero mistero, ora lo sappiamo, è nascosto nelle viscere della terra.
A spasso per Napoli sotterranea
Arianna Panza
Squarci
Lessi Charles Bukowski per la prima volta quando avevo, credo, quindici o sedici anni. Ne ho già scritto, ne ho già parlato. Mi folgorò.
Le parole, semplici, dirette, crude, mi sembravano proiettili, coltellate, pugni; il pensiero scorreva velocemente ed era chiaro, limpido, senza fronzoli, senza ghirigori, senza francesismi, senza censura. Il mio cuore, da giovane ribelle che credeva di saper tutto, esplose.
Avevo trovato un amico, un confidente, uno che la pensava esattamente come me e che non si vergognava di quello che diceva, scriveva, pensava e con un orgoglio che tanto sapeva di altezzosità raccontava le sue esperienze e sparava le sue sentenze, sentenze che dettavano legge e diventavano verità assoluta, senza compromessi, senza ripensamenti, senza cercar per forza di cose l'approvazione degli altri.
Bukowski divenne il mio eroe, istantaneamente.
Negli anni, il mio amore per il buon vecchio Hank è rimasto immutato e i miei maldestri tentativi di mettere su carta quello che provavo (istinto irrefrenabile per me) scimmiottavano il suo stile, stile che mi veniva come ora mi viene il respirare o il battere le palpebre o il cuore pulsare: naturale.
Reputo tuttora The shower la più bella poesia d'amore mai scritta: vera, sincera, concreta, reale, cruda.
Ma sto andando oltre.
Ho provato, sulla pelle, la fatica del capitale che Bukowski racconta, il dolore del sentirsi sempre soli, la fatica del doversi svegliare la mattina per un ideale costruito, la stanchezza del mettersi a letto la sera e sentire il cuore inquietarsi per domani senza aver goduto nemmeno un istante di bellezza del giorno appena passato perché di bellezza non ne ha trovato, nemmeno un granello.
Poi è arrivato Jack London.
L'aver letto London a 33 anni e non 20 mi ha aiutato a non rovinarmi la sorpresa perché, a meno che tu non sia un giovane marinaio del 1800, tante sfumature di colore nemmeno le noti; la natura, la ricerca di se stessi, il senso al sanguinare sono tutte cose che non appartengono all'Uomo di fine '900, uomo che oggi io sono.
Io sono figlio della Generazione X, di quelli che si puntano da soli la pistola alla tempia, di Kurt Cobain ed Amy Winehouse: sono figlio dell' Antracite, del colore grigio e cupo della città urbanizzata, del millennium bug, delle torri gemelle che crollano su se stesse colpite dagli estremismi, dell'autolesionismo, della musica metal, del grido disperato di mille band, della narrativa scolarizzata che rifiuta le accademie; sono figlio, io, di un presente che non ha memoria, che vive alla giornata, che non progetta perché non ha un piano ben preciso, che legge Kerouac supino sul letto mentre nella camera accanto il padre si danna per l'ennesima bolletta Enel: io non ho futuro.
Ma ho un’Anima. Che si danna, che si contorce, che cerca Verità e Memoria, che sta attraversando la Selva Oscura e solo in quest'ultimo periodo se ne sta rendendo conto.
E allora tutte le lucine gettate alla rinfusa nel buio vengono unite dal filo di Arianna e sembrano formare un disegno preciso: tutto accade per un motivo, diceva a volte mia nonna che, come ho scritto altrove, vestiva il dolore come uno scialle e allora può darsi abbia avuto sempre ragione.
Io ho dovuto rinnegare le mie radici ed estirparle dalla terra in cui sono nato per poterle riconoscerle e riconoscermi; il Viaggio lontano da casa mi ha cambiato.
Leggo del giovane 'Ntoni e provo pena e commiserazione, un senso di terrore nel pensare che al mio ritorno nemmeno il cane riesca a riconoscermi.
Lo scoglio mi ha richiamato come il canto di una sirena, come la natura selvaggia richiama Buck ricordando la legge del bastone e della zanna: non è un caso se Napoli è nata da Parthenope e venga definita, tuttora, una terra selvaggia.
Ma ho anche l'Anima tormentata di Ulisse, mosso dalla hybris e dalla sete di conoscenza del diverso, dalla curiosità quasi scientifica del vedere per credere e credere per ricredersi, ed ecco che, ancora oggi, zaino in spalla, mi perdo nell'Altrove per cercarmi.
Jack London, dicevo.
A 20 anni mi sarei rovinato la sorpresa di trovare uno scrittore che con Bukowski non ha nulla a che fare.
Charles e Jack sono agli antipodi, e mi spiego meglio cercando di essere coinciso, preciso, breve riservandomi a un prossimo futuro il piacere di scrivere meglio su un autore, London, di cui non ancora conosco tutta la produzione, né biografia, né pensiero (come invece mi accade per Bukowski).
Ho letto finora Il vagabondo delle stelle, Martin Eden, Il richiamo della foresta, Il popolo dell'abisso, e qualche novella sparsa ma mi sembra chiaro, come il sole, dove voglia andare a parare.
Innanzitutto, il linguaggio.
Di Bukowski mi ha sempre colpito la semplicità, la rozzezza, l'essere diretto e schietto. È per questo che oggi, nell'epoca dei social network, è tra i più citati anche a sproposito: il populismo è parte integrante non tanto del suo pensiero quanto del suo linguaggio.
London, invece, è figlio del 1800 e di un naturalismo neanche troppo velato; un linguaggio vasto, descrizioni dettagliate, un uso di sinonimi precisi, tante subordinate, qualche perifrasi qua e là: Jack London riuscirebbe a rendere BELLO e interessante anche lo squallore dell'East End londinese (cosa che ha appunto fatto nel Popolo dell'Abisso).
Ciò comporta una maggior attenzione quando si legge una pagina di Jack London che scorre come il letto del fiume, placidamente, ma ha improvvisi vortici e improvvise, enormi, paurose, cascate che obbligano a tenere gli occhi aperti e la mente viva durante la lettura per evitare di infrangersi sul fondo, alla fine della cascata e doverla risalire come un salmone per dover venire a capo del messaggio.
Al di là dei tecnicismi (soprattutto del linguaggio della navigazione), è lo spirito di avventura che muove l'Universo di London e la sua scrittura, scrittura dinamica, vivace, colta e mai rassegnata: l'esatto opposto di quella di Bukowski che sebbene sia anch'essa abbastanza dinamica e vivace rimane, a mio parere, chinata su se stessa e, qua e là, pregna di rassegnazione e nichilismo.
È proprio su Nietzsche in entrambi che ieri riflettevo: reputo il pensiero di Nietzsche fortemente frainteso nel corso del '900: in molti hanno visto nella sua vita e nella sua opera un nichilismo e una autodistruzione che in realtà non gli appartengono. Nietzsche, per me, non è mai stato nichilista.
Superuomini che si ergono dalla massa come individui unici e perché unici anche meritevoli di potersi ergere e imporre la propria personale testimonianza sulla terra: è questo Nietzsche. Non omini rannicchiati su se stessi che piangono e si lamentano senza agire per cambiare le cose. Questo è nichilismo.
Forse, in parte, anche London ha frainteso Nietzsche quando ha chiuso Martin Eden: il suicidio come scelta obbligata a una nausea e una noia alienante. No, io non avrei chiuso Martin Eden così; scrittore di successo, studioso di biologia e della filosofia nicciana, evoluzionista, l'avrei forse reso un superuomo a quel punto, il piede nella scarpa dal tallone di ferro forse.
Ma London è London e io sono io.
Bukowski è un nichilista.
Un nichilista che ha incontrato la fortuna. E lui stesso lo ammette, placidamente.
Condivide con Martin Eden il pensiero di essere stato sempre lo stesso, prima e dopo la fama e che l'unica differenza sia stata una botta di fortuna e nient'altro.
Bukowski ha viaggiato, ha vagabondato ma sempre con la sconfitta e l'autodistruzione nel cuore. Si è arreso al sistema, ha trovato "il posto" che Martin Eden ripudia, si è adattato lamentandosi del suo adattamento senza cambiare la sua situazione.
Sconfitto, dal sogno americano, carne da macello macellata dal capitalismo.
Martin Eden ha rigettato il lavoro in lavanderia, ha concentrato tutte le sue forze per seguire la sua vera natura.
Questa è un'altra differenza tra London e Bukowski:
Henry Chinaski, alter ego di Bukowski, si muove come uno zombie spinto solo dall'impulso sessuale, l'alcol e il pensiero della morte;
Martin Eden, a mio parere chiaro alter ego di London, a metà romanzo sta per diventare quello zombie, quell'automa ma ripudia questo cambiamento.
London era un avventuriero, leggo.
Bukowski era uno della working class, credo.
E si vede, si sente.
La mancanza di denaro è stata sicuramente decisiva ma la differenza, forse, sta nella reazione caratteriale e nell'arrendersi al nichilismo, per l'appunto.
Ma Bukowski, nato nel 1929, figlio del '900 non può mai essere London, figlio dell''800.
Ecco perché a 20 anni io avrei ripudiato London: non sarei mai riuscito ad avere il tempo e lo spirito giusto per fermarmi e comprenderlo.
Con Bukowski è stato più facile, siamo entrambi figli del' 900, entrambi figli della working class.
Ma sento, vivo in me, il desiderio di denunciare e urlare e ribellarmi; denuncia e urlo che vivono in London più che Bukowski perché Bukowski è un cinico populista mentre London un socialista che crede, nonostante tutto.
Ecco la differenza sostanziale nel pensiero dei due e perché sono agli antipodi: Bukowski non denuncia, racconta, non si fa esponente di una classe, non gli interessano le sfumature i ghirigori le storture politiche; è un cinico, un disilluso, un populista individualista.
London è, al contrario, uno scrittore che denuncia ed enuncia, impegnato politicamente e socialmente, uno che nutre ancora la speranza che, nonostante la legge del bastone e della zanna c'è ancora differenza tra l'Uomo e le bestie anche quando l'Uomo cede all'impulso e si comporta da Bestia.
Bukowski lo scrisse come titolo di un racconto "confessioni di un uomo abbastanza pazzo da vivere tra le bestie".
Le facce di una stessa medaglia ma irreversibilmente diverse.
E ora, a 33 anni, sento di essere in una fase della mia vita nella quale il bisogno di sentirmi più London che Bukowski è vivo, forte, coriaceo, ardente.
23 novembre 2020.
Il mio ritorno dall’Abisso
Giuseppe Sterlicco
Squarci
Una volta con Eleonora abbiamo fatto un gioco: una di noi due doveva, con gli occhi chiusi, odorare un libro che l’altra le porgeva, cercando di indovinarne il titolo. È un gioco inventato in un momento di noia, ma mi fa fare alcune riflessioni. In effetti io, sentendo l’odore, toccando le copertine e sfogliando le pagine sono sempre (o quasi) riuscita ad indovinare quale fosse il libro. Come è possibile? Quando compro un libro nuovo, prima di iniziare a leggere, mi piace toccarlo, osservarne i particolari e la copertina, odorare le sue pagine. Accarezzarlo, marcarlo come fa un gatto col suo territorio. Perché poi, quando lo apri e cominci ad immergerti pian piano nelle sue pagine, i rumori intorno si affievoliscono e, se all’inizio fai fatica, quando il mondo e i rumori sono passati in secondo piano vuol dire che ti sei immerso del tutto... come quando vai a fare il bagno nell’acqua gelida di un lago di montagna: prima metti un piede, hai freddo, ne metti un altro, ti ritrai, ma poi quando il corpo è completamente immerso dentro vorresti non uscire più. Leggi, continui a leggere e perdi il senso del tempo, fino a quando, dopo un momento per te troppo breve, una voce brusca ti dice: “Ehi, smettila, dobbiamo andare”. Tu non capisci nulla, ti ritrovi sul divano di casa tua, mentre invece credevi di essere chissà dove nel mondo. Gli occhi fanno fatica a riabituarsi e solo dopo senti di avere le gambe addormentate e, a malincuore, seguendo quella voce davanti a te, capisci che è il momento di andare.
Che cos’è un libro senza un lettore? Sono tante pagine piene di parole senza senso, soltanto caratteri. È soltanto con un lettore che quelle parole acquistano un senso. Il lettore è la chiave magica per un libro, che apre le sue parole e in ognuna di esse lascia un’emozione. Solo con un lettore il libro può essere unico, senza è uguale a tutti gli altri. È per questo che quando si legge un libro ognuno sperimenta qualcosa di diverso, perché in qualche modo è il lettore stesso che crea la storia, vivendola come un personaggio. Leggendo puoi provare moltissime sensazioni: puoi piangere, puoi ridere a crepapelle, puoi arrabbiarti, collegare una storia a un evento della tua vita. Il libro si collega alla tua mente, ti avvolge e prende le tue emozioni, fa uscire fuori anche quelle più profonde, poi le assorbe e infine, come per magia, quelle si imprimono sulla carta ed emanano un odore, un ricordo. Quando in seguito aprirai il libro, sentirai quell’odore e improvvisamente proverai quella stessa emozione sentita la prima volta. Ti aprirà un ricordo, potrai vedere la scena di quel momento, mentre leggevi, come se entrassi in una sfera di cristallo e rivivessi quell’attimo. Perché le emozioni in realtà sono attimi, quello che resta nella tua anima sono solo sensazioni. Sono gli attimi che importano davvero, quelli che ti cambiano. Perché un libro ti può aiutare e confortare, ti può dare sicurezza, ma ti può anche cambiare. Una volta, un mio compagno di classe mi ha detto: ma come fai ad emozionarti per un libro? E io gli ho risposto che il libro è mio amico perché se lo leggo quando sono triste o arrabbiata mi sento subito meglio. Quando lo finisco è come aver perso la mia migliore amica e posso sentirmi triste per molti giorni. I libri mi fanno stare bene perché mi fanno sognare. Insomma, ogni mio libro è vissuto e ne conosco ogni minima parte.
Il senso dei libri
Arianna Panza
Squarci
indistruttibile, ribelle,
fiera
indomabile
donna e femmina
granitica, adamantina, testarda
benigna, armoniosa, amabile
semplice
genuina, pura, ruspante, schietta
autentica
pietra e roccia
senza strizza né timore e senza apprensione,
senza panico, mai inquieta, mai dubbiosa
senza colpa e senza peccato, mai un crimine,
mai una mancanza, mai un fallo
senza i peli sulla lingua
ricordo il pane imbevuto intriso di zucchero,
e il montesomma e il gradino della porta d'ingresso e le piante da annaffiare
l'estate, l'inverno, l'autunno e la primavera quando c'erano ancora,
e la cùrtina che indicava un sud orfano del nord
e tu,
al centro di tutto,
schiena dritta,
la scopa in una mano e l'altra sui fianchi,
il grembiule azzurro sporco di farina,
le ciabatte, la voce tonante da bersagliera che dispensava comprensione & pace,
mai consigli o lezioni o prese di posizione, quelle le lasciavi a chi ne sapeva di più
tu no,
tu eri altro
tu eri signora e cacciatrice
coi tuoi capelli corti ed eleganti
tu,
madre, nonna, zia,
figlia e nipote
tu, Maestra: tu eri tutto
mia
Seconda
Madre,
Mia
ho saputo mentre ero distratto
hai esalato l'ultimo respiro,
affannato, fiacco, pesante, complicato, faticoso, greve,
maledetto da noi tutti eppure benedetto da te,
dal tuo ridere e fottertene delle difficoltà,
delle cadute, delle disgrazie, dei dispiaceri, dei rimorsi,
dei pacchetti di Merit, dei guai, del veleno dei serpenti,
della tosse arida e insistente
e dei tuoi polmoni stanchi
ieri, io non ero lì, come mio solito
ma ieri tu eri qui e qui sei oggi e domani qui sarai
riponila questa croce disgraziata nel cantuccio,
goditi il respiro della Verità che aspramente hai vinto,
sii libera, come lo sei sempre stata
assolta, prosciolta, scarcerata
e lascia, lascia, lascia a noi
il dolore, la consistenza del silenzio, il peso dei rimpianti
e il vuoto della tua carne assente:
noi meritiamo tutto questo e mai saremo all'altezza del tuo nome,
mariateresa
dignità, quando mi chiederanno il tuo ricordo,
dignità e nient'altro
ho parlato forse troppo,
mi avresti sorriso e detto che esagero,
hai ragione, mi fermo qua
adesso, riposa.
Per la mia seconda madre
Giuseppe Sterlicco
Poesie
amici
strana è l'inquieta felicità
dove serpeggia letizia
e struggimento
mi avviene spesso
per le partenze
spiegando le vele
sull'oceano delle storie
si consegna all'orizzonte
l'inaspettato approdo
l'attesa fa corto il respiro
che il silenzio accompagna
poi
non son più le labbra
ma l'inchiostro
a formare il racconto
catturando all'occhio
una sconosciuta luce
dal mantello di stelle
la buona novella spira
mostrando la strada
per la casa del cuore
Canto dell'inquietudine e del ritorno
Agostino Forte
Poesie
A cura di Serena Ammendola
Mercoledì 26 giugno, alle ore 16 e 30, presso la Biblioteca Nazionale, Sala Rari - Piazza del Plebiscito, 1 - Napoli
https://www.orientexpress.na.it/x/EmozioniCartolina.pdf
Emozioni. Esperienze e colori.
Redazione Orientexpress
News
«Orsù, il ricordo stesso delle sciagure è funesto» disse, «poiché mi fa scordare il diritto dei supplici. Avrai il tuo pane al tramonto; la tavola sarà imbandita sotto gli olivi. Avvicinati senza timore. Vorrei poter alleviare la tua pena».
(Jean Giono, Nascita dell’Odissea)
“Guarda sempre davanti a te se non vuoi pestare il muso contro qualcosa”, soleva raccomandarsi sempre la madre di Giacomo. Malgrado quelle continue raccomandazioni, il figliolo tornava sempre a casa con dei gran bozzi sulla fronte o con escoriazioni multiple, per via delle varie quanto numerose cadute o scontri, racimolati durante il corso di una giornata.
Giacomo era un ragazzotto fatto a modo suo. Non dava molto retta alle raccomandazioni di chicchessia, voleva disperatamente fare le sue esperienze, anche a costo della vita, pareva. Stringeva i denti ed anche i pugni, ostinandosi a compiere il suo destino. Sì, perché per Giacomo il vero destino era quello deciso da lui, giorno per giorno. E questo, detto chiaro e tondo era il cruccio del sacerdote del suo oratorio, don Angelo.
Don Angelo credeva di aver perfettamente capito quel ragazzo: era l’anticristo, l’eresia in persona, il sovvertimento delle Scritture o, come era solito definirlo, l’anti-testamentario. Più di una volta don Angelo si era sentito costretto a non consentire a Giacomo di restare cogli altri ragazzi, per tema che il suo comportamento potesse influire su quelle sprovvedute personalità in formazione. Francamente tutto ciò era eccessivo, e molto. Cosa si poteva pretendere da un ragazzino di otto anni, a digiuno di teologia nonché interesse religioso o frequentazioni di dottrina ?
Eppure, Giacomo sentiva la propria vita come un’ovvietà. Era così, si parlava così, si viveva così, semplicemente così! Giacomo consacrò quei suoi otto anni a costruirsi la vita. E, non sapendo come iniziare né figurarsela, guardando decisamente al futuro si gettò a capofitto nell’insondabile, tentando l’abracadabra delle possibilità; in poche parole scommise sé stesso all’insaputa del mondo.
Sono passati molti anni da allora. Chissà dove si trova ora don Angelo e l’oratorio, come tutti gli oratori nel corso degli anni, sarà un po’ cambiato. Gli amici saranno a loro volta cresciuti e, per la maggior parte, saranno diventati genitori. Chissà poi quelle rare e ideali morosine ...
Ora Giacomo sa perfettamente di tutti gli anni trascorsi, sembra quasi percepirne i tratti sul corpo. Tutto gli appare come se ogni anno passato avesse un suo volto specifico. I pianti e le risa, le gioie e il dolore; padre madre fratelli amici conoscenti vari, tutto è ormai in un calderone e di una fattezza tale per cui tutti gli ingredienti vi sono perfettamente riconoscibili.
Ma il passato è anche una sorta di sonno in continua progressione. Il passato pare perfettamente avvertito, sentito, digerito. Non di meno si presenta come un c’è-non c’è.
Ora davanti ai suoi occhi corre l’idea della solitudine. Lontano da tutto il conosciuto, da tutti i conoscenti.
Lui afferma di lavorare la terra e di non avere orari – non gli importa averne, è lui che li fa, proprio come quando era piccolo e decideva del suo futuro trasferendovisi –, ha trovato una fattoria dove gli danno da lavorare ripagandolo con vitto e alloggio ... e qualche sigaretta. Lui è contento così, quanto al resto “ci penseremo al momento” dice.
Là, al riparo della collina e dell’ospitalità del paesaggio, Giacomo vive la grande rinuncia a sé stesso. Sa che tutto ciò che ha lasciato “è stato il prezzo pattuito”. Vada come vada. Il tramonto senza una voce che lo chiami alla cena e la vecchiaia senza la compagnia dell’umanità, non sono altro che le sue scelte decisive di come presentarsi davanti al destino, spiattellandosi di fronte alla fine, inesorabilmente.
La fine dei giorni, la morte, rappresentano l’ovvio scadere del transito terreno. Verrebbe da dire che Giacomo aspetta ogni istante della vita con cinismo e senza raccapriccio. Sa che dietro le pieghe dell’esistenza sono in agguato immagini e vestiti esistenziali terribili: malattie, immobilità, pessimi caratteri, oblii e quant’altro. Sa, però, essere questa “una fetta e non la torta intera”.
La fine dei giorni, la morte, Giacomo li attende sulla soglia di casa, solo. Una cosa non sa con sicurezza: quanto sia lo spreco perpetrato dal suo vivere. O forse lo sa ma non riesce a contenerlo nelle sue braccia. Ineluttabile il suo cammino, con ostinazione quasi narcisistica. Ogni ora decide la pervicacia di un’agonia.
Eppure, gli anni hanno maturato in questo uomo tutta una sorta di pensieri, pensieri che lo portano a pensare alla dissipazione del dono ricevuto nel suo venir posato su questa terra. Egli è lontano da moglie, figli, fratelli, genitori, umanità tutta. Con tutto ciò, è loro così vicino da ridurlo quasi alla perdita della ragione.
Giacomo invidia il giorno quando lascia il posto alla notte senza gelosia. Loro, gli amanti insensibili al dominio, ai quali desidera contendere quella capacità a non-avere. Come vorrebbe cancellare gli istinti di possesso, come vorrebbe poter scomparire, essere senza un nome, senza voracità. Annullarsi vorrebbe, ma una voce torna a ricordargli che pure nell’annullamento di sé stessi può esservi nascosto un compiacimento.
È qui la sua solitudine, alla quale non può trovare rimedio se non nell’esercizio della pazienza, cercando di guardare avanti per non scontare le conseguenze della disattenzione, come era solita indicargli la madre.
Ogni tanto si sofferma sul monito di San Nilo abate, il quale rammentava che perdersi nella moltitudine causa il ritornarne costellati di ferite.
Giacomo sa cosa significano queste parole. Ora, Giacomo sa bene cosa significhino quelle parole d’avvertimento.
Giacomo, un giorno come tanti
Agostino Forte
Squarci
Arrivi in Terrasanta e la prima cosa che percepisci è una frattura.
Ti aspetti di entrare in un’atmosfera mistica,
in una dimensione nuova che sappia sorprenderti,
in un abbraccio accogliente, la sacralità, cifra di questa terra, te la immagini così: materna.
Come mettere piede in un bosco sacro,
o oltrepassare la soglia di una cappella di campagna, piena di santi.
Indugi un attimo e attendi: sicuro che qualcosa accada.
Ragioni da fedele: la luce arriva, basta saper attendere in silenzio;
ragioni da turista: quantomeno sulle guide è indicato con chiarezza che quella è la terra del Sacro.
È un’attesa che sai che prima o poi verrà ripagata. La religione, qualsiasi religione si fonda sull'attesa e nella Terra dei Tre Monoteismi non si può avere fretta.
Arrivi in Terrasanta e la prima cosa che percepisci è una frattura.
Già all'aeroporto, prima ancora di mettere piede in questa terra ti danno strane raccomandazioni: non parlare in inglese, a domande in inglese rispondi in italiano.
Se parli in inglese, in qualche modo possono incastrarti.
Interrogatori tendenziosi.
L’inglese: la lingua-trappola. Loro la conoscono bene. Noi meno. E allora l’italiano: la lingua madre, quella in cui nessuno può sfiorarti.
L’italiano, un recinto sicuro, un fortino invalicabile.
Masada.
La roccaforte dei ribelli.
Zeloti vs Romani.
La lingua. La più feroce arma con cui difendersi.
Muro di difesa.
Muro di separazione.
Cortina.
Arrivi in Terrasanta e credi di trovare il Sacro che si fa luce.
Sei partito dopo anni di letture.
Centinaia di libri passati in rassegna.
Prima di partire fai una lista di testi da portare con te: una piccola biblioteca da viaggio che serva all'occorrenza. Qualche testo storico, qualche altro di arte e poi volumi di filosofia e di religione.
Hai fatto letture appassionanti: Rudolf Otto per anni ti ha convinto che il Sacro si dà; non in modo immediato, certo, ma in qualche misura trova la forma per apparire. E lo fa nella sua pienezza che ti accoglie, ti ospita.
E invece nel tragitto da Tel-Aviv a Betlemme, trovi solo fratture.
Attraverso il vetro del bus contempli un paesaggio fatto di pietre e ulivi.
E sai che in quella coppia c’è già tutto.
La Terrasanta e la storia che si porta dietro sta tutta in quello sguardo dal finestrino.
In pietre e ulivi. E lì presagisci il Sacro di cui parlava Otto.
Ma poi volgi lo sguardo verso il finestrino di destra e trovi il Muro.
Otto metri di altezza e filo spinato.
Frattura.
Frattura lunga centinaia di km.
E poi posti di blocco lungo l’autostrada.
Ovunque.
Ogni pochi km: automobili fermate e polizia con la torcia.
Arrivi in Terrasanta con l’animo pieno di Silenzio e Attesa, pronto a fare spazio a un Sacro che sei certo ci sia, lo sai da anni, dai libri e dai racconti.
E invece la prima cosa che trovi è una Frattura Insanabile.
Arrivi in Terrasanta
Aniello Fioccola
Squarci
Tre anni fa sembrava impossibile una vittoria del Leave. Ero qui da un anno e mezzo, lavoravo alla caffetteria di una libreria ad Holborn, “prima o poi salterò lì dietro la cassa cosa libraio” mi ripetevo, tra un caffè e l’altro, come un mantra, nei momenti più duri, quando tutto sembrava più pesante del solito, quando tutto quel svegliarsi alle 4 del mattino e infilarsi i pantaloni sporchi di caffè sembrava insensato. Ci credevo, veramente.
Spesso mi fermavo a chiacchierare con i commessi, rigorosamente tutti inglesi, io, col mio inglese incerto, imparato per strada, in Tube, alla macchinetta del caffè, leggendo Bukowski e Orwell. Gli davo il mio curriculum, mi dicevano “no purtroppo non abbiamo nessuna vacancy al momento”, poi spesso capitava facessero colloqui proprio lì davanti a me, i candidati tutti rigorosamente inglesi; abusando del mio essere amichevole e cordiale, tracannando i caffè che gli facevo gratis, perché ero lì da più di un anno e li consideravo amici.
Ero cieco. Ero sordo. Sembrava impossibile una vittoria del Leave. Una società multietnica, multiculturale, moderna, aperta, mica l’Italia di merda che mi ero lasciato alle spalle? I miei curriculum nel cestino accanto alle scrivanie, li trovavo quasi tutte le mattine ma ero così preso da quel lavoro che non mi interessava che alla fine manco ci facevo caso. Poi votano Leave. Il primo cliente il giorno dopo la vittoria del leave, un grasso uomo dal forte accento londinese, di quelli che pronunciano “grande” Grendy; era un cliente fisso, cordiale, gentile, amichevole. Arriva e mi fa “posso avere un english breakfast tea e oggi più che mai posso dire ENGLISH con orgoglio!”. Lo guardo, mi guarda “non dobbiamo essere per forza nella stessa unione per essere amici e ah non temere: anche se fuori dall’Europa ormai tu puoi continuare a servirmi, come hai sempre fatto.” Sì, aveva detto proprio S e r v i r m i. Non rispondo, gli sorrido, lui si volta, gli sputo nel suo english breakfast tea. Glielo s e r v o. Lui lo afferra, manco ringrazia, va a sedersi, beve il mio sputo.
Uno dei ragazzi in libreria, per scherzo gli dico “stiamo cercando persone alla caffetteria”, mi guarda, sorride “non parlo italiano, quello è posto per te” mi dice sorridendo. Non sto più dormendo, leggo tra le righe. La maschera è caduta. Questi sono i veri inglesi. Ecco, per me la Brexit è stata questa: una maschera che è caduta. Il loro sentirsi orgogliosamente inglesi, schiacciando tutto e tutti ha prevalso. Come sempre. Non mi chiedo più perché sono così odiati, nel mondo. Arroganti, ipocriti, falsi, finti. Tutti, nessuno escluso. E pigri. Hanno votato leave sostenendo che noi immigrati gli rubassimo lavoro, e che lavoro!
Ricordo una intervista a una tizia che aveva votato leave: lei ha votato leave, come mai? Perché i polacchi rubano il lavoro. Quindi lei è andata a cercare lavoro e ha trovato polacchi un po’ ovunque? In realtà non ho mai cercato lavoro, vivo di benefits, ma sono sicura che se andassi a cercarlo non troverei nessun lavoro perché i polacchi prendono qualsiasi lavoro. Fuori un centro polacco ad Hammersmith, pochi giorni dopo il voto per la Brexit qualcuno scrisse a caratteri cubitali V E R M I, parassiti. Qui, nella Londra aperta, emancipata, futuristica. Eppure, da quando sono qui sono pochi gli inglesi che ho visto lavorare. A loro piace la scrivania. E comandare. Quando provano a fare qualcosa che non sia comandare quella cosa fa schifo.
Penso alla Grenfell tower. Sa quante ce ne sono simili? O penso a un qualsiasi tipo di lavoretto in casa. L’altro giorno un “ingegnere” è venuto ad aggiustare il rubinetto dell’acqua calda che usciva tiepida. Sono tre giorni che, dopo la sua visita, l’acqua è fredda. Questi sono i “lavoratori” inglesi. Le manifestazioni dei giorni scorsi che chiedono un secondo referendum, le petizioni, sono una farsa. Ci siamo noi, immigrati, in 2 terzi di quelle petizioni, di quelle marce. Noi, che teniamo su questo sistema dalle fondamenta. Noi nei bar, ristoranti, caffetterie, nella logistica, nelle costruzioni, nella sanità. Ma il voto, quello esclusivo agli inglesi, ha parlato. Hanno avuto 3 anni per organizzarsi e preparate un piano di uscita dall’Europa che avesse un senso e che mettesse tutti d’accordo. Loro, così precisi, così convinti di essere moderni, primatisti, avanti. La maschera è caduta, questi sono i veri inglesi. Razzisti, ipocriti, disorganizzati, incapaci di sopravvivere o arrangiarsi senza le freccette che gli indicano la strada da seguire.
Io spero vivamente escano dall’Europa e vadano in forte crisi economica, così da rimettere i piedi per terra e svegliarsi. Un po’ come ho fatto io quando aprendo gli occhi, tutto un tratto, ho capito che in una società come questa non potrò mai integrarmi.
Sulla Brexit - Note di vita a Londra
Giuseppe Sterlicco
Squarci
Nel complesso è una esperienza che non rinnego, questa londinese. Ho dovuto imparato a sopravvivere in una giungla urbana lontano dal sostegno e dall'ombrello della famiglia. Ho fatto e sto facendo qualsiasi tipo di lavoro per sopravvivere ed è un bene: ho visto e vissuto quelli che consideriamo lavori umili, quelli del basso, quelli che ti rendono una persona migliore secondo me.
Ciò che ho capito è che questa londinese è una fase, un pezzo di cammino, una esperienza che è quasi al termine e che volerò da qualche altra parte prima o poi.
Sto iniziando a mandare cv in Italia perché vorrei rientrare, precisamente a Bologna, ci sono stato lo scorso agosto e ho avuto quelle che qui chiamano good vibes. Una città grande ma non troppo, un centro piccolo ma non troppo, la città delle giuste misure. E dopo la grande abbuffata di umanità che ho fatto qui, a Londra, ho capito il peso della giusta misura.
L'estate scorsa ero a Firenze, guardavo il Duomo e pensavo che è tra le cose più belle che avessi mai visto. Imperioso, bello, sotto il sole cocente di una estate italiana qualunque, ne avrà viste a centinaia di estati qualunque, sotto il ducato, sotto la repubblica, sotto la monarchia, sotto la dittatura e poi sotto la repubblica e ancora e rimane lì, al centro di tutto, e non c'è Tower Bridge o Buckingham Palace che tenga, il confronto non regge.
L'estate all'italiana è forse la cosa che più mi manca e alcuni modi di fare che ho dato sempre per scontato, che mi apparivano alieni ma che oggi sanno toccare alcune corde, dentro di me.
E poi sono andato a Bologna, sotto la Torre degli Asinelli, tra l'odore di tigelle e mortadella e la birra che non manca mai e me ne sono innamorato.
Gli chalet dove sedersi e godersi un caffè, una tagliata di salumi, un aperitivo; bere una birra per socializzare e non socializzare per bere; avere dei punti stabili nel proprio percorso di vita, come un amico a cento metri, un parente dietro l'angolo, qualcuno con cui scambiare una chiacchiera ogni tanto, perché stare da soli è bello ma aprirsi, a volte, è meglio; perché come diceva John Donne, "nessun uomo è un'isola". Questa, invece, è un'isola arida, negli affetti come nei modi di fare e mangiare e bere e dire e essere e rapportarsi e sentirsi e mettere sempre il piede sopra qualcun altro per sentirsi meglio perché ogni giorno qui è una gara al risparmio.
Si risparmia sulle parole, le sillabe, i sentimenti, gli sguardi.
Si socializza per bere. Non si beve per gusto o per sete: si beve per necessità. La necessità di sentirsi vivi, di dare un senso a questo rotolarsi dal letto alle quattro del mattino per pagare un affitto che costa un quanto un rene al mercato nero. E allora tutti capo chino sugli iphone, tutti uguali, tutti omologati, tutti tristi, spenti, vuoti, tutti con un unico pensiero, "your annual income" e per quell'annualincome si calpestano dignità, diritti, si calpestano gli altri, quello che pensano, fanno o dicono, e tutto il sistema ha su una maschera ipocrita di tolleranza e multiculturalismo, multiculturalismo forzato, finto, inutile che grazie a dio con la questione Brexit sta cadendo e il vero volto di questa società si sta pian piano smascherando.
E la lingua... Imparare dalla strada una lingua non è come aprire il libro e impararla in maniera fredda e meticolosa. No no, la lingua in strada te la tirano in faccia come schiaffi, come un secchio d'acqua gelata. E sei lì, mezzo sordo, a chiederti se quello che hanno detto è quello che hai capito o altro. Guardia alta, pugni stretti nelle tasche, perché una parola può essere anche un insulto e qui in certe zone all'insulto segue una coltellata. Ecco, impari la lingua per sopravvivere. Per non farti ammazzare. Ed è diverso dal libro aperto sul tavolo e la cioccolata calda mentre mamma ti chiede se per pranzo vanno bene le penne al sugo o la pasta con le patate. Le prime parole che ho imparato sono state "money" e "now". A dire il vero già le conoscevo ma non ne avevo compreso il ero significato. Danaro e tempo. Dopo un giorno che ero qui avevo inconsapevolmente già imparato il mantra di questa città, di questa società. Non ero capace di articolare una frase, non capivo quello che mi veniva detto ma una cosa avevo capito subito: Money now.
Ecco questo è il genere di esperienze che ho avuto qui e sto avendo, ho fatto e sto facendo un carico di vita che un giorno vorrei tramutare in qualcosa da dire. Ma sento anche il bisogno di dover cambiare il tiro, dover cambiare il calibro della penna come fosse una pistola. Vorrei lavorare su quell’ humor che leggo in Bukowski e Orwell. Uno humor spietato ma anche formale in un certo senso. Usare la parola "merda" quando veramente ha senso usarla e non tirarne un grappolo sul foglio a mo’ di coriandoli. E quindi devo lavorare sulla rabbia.
Quando l’ho scritto nel pezzo per il volume di Oxp gli scorsi mesi era vero. La rabbia, arriva, mi salta addosso, e non mi fa concludere nulla. A volte, spesso, per calmarla devo prendere a cazzotti qualsiasi cosa che mi capita a tiro, mura porte materasso qualsiasi cosa. È una brutta puttana. Ma la domerò, sono ancora in cammino, sto ancora vivendo quello che domani racconterò. Il mio apprendistato non finisce qua.
Note di apprendistato - Inghilterra e Italia
Giuseppe Sterlicco
Squarci
Quell'uomo è finito
ha lasciato grani in frantumo
Scie flebili
Tracce nascoste
Il vecchio disco arrugginito
gira, si blocca, gira
Sono le ombre che divorano le note
ingurgitano ritmi
ingorde schiamazzano e ridono
perché non sono fatte che di materia
sottile e sporca.
Ombre
Francesca Carbone
Poesie
Dopo mesi passati nel più doloroso turbamento interiore, stamattina mi sono svegliato come grazie a una carezza: un’enorme mano leggerissima ha tolto via coltri e coltri di zavorra dal mio cuore.
Sognavo qualcosa, all’alba. Sognavo amici e famiglie, uomini, donne e bambini che conosco qui a Sapporo, e allo stesso tempo osservavo, come da estraneo, la mia solitudine, insoddisfazione, incontrollabile rabbia personale degli ultimi tempi. Eppure questi due lati inconciliabili si conciliavano e bilanciavano in sogno, e sperimentavo così una sorta di dimenticato equilibrio, un perfetto equilibrio, direi.
Poi ai miei occhi appariva il simbolo del Tao, molto piccolo e in basso a sinistra del mio campo visivo, quasi come una sovraimpressione televisiva, provvidamente e magicamente spogliato di tutte le sue sovrastrutture storiche e filosofiche. Mi appariva alla stregua di un logo qualunque e lo osservavo con inammissibile indifferenza. E più lo fissavo e più mi sembrava non emanare alcuna carica mistica finché… una sua metà mi è apparsa come il simbolo di una bianca pancia bassa, gravida del suo puntino nero, che irrompe nello spazio del nero più grande, e la protuberanza superiore del nero mi è apparsa come una testa troppo sviluppata, una chiara mia macrocefalia da troppo pensare, con uno sgranato, stupito occhio bianco…
Mi sono visto nel Tao.
Ho ben chiara la banalità di questo messaggio, soprattutto nell’ambito del mio (forse assurdo) rapporto di coppia, ma che grande aiuto! Poi mi è giunto forte e chiaro un messaggio silenzioso e finale, dilatato quanto la storia del mondo, trasmessomi tuttavia in un istante estraneo a ogni lingua umana. Un messaggio che io rilancio così: nessuno scappa alla ottusa, assurda, rotondità del mondo, nessuno lo può fermare: tanto semplice, ma nessuno lo può apprendere e comprendere davvero. Alla fin fine non è forse esso un’enorme giostra?
Il sogno aveva inoltre qualcosa di particolare rispetto ai miei soliti. Era infatti come se portassi avanti più sogni, della stessa fattura e leggiadria, in inaudita contemporanea. Mi sembrava di sognare su un pentagramma, e spesso nel sogno saltavo da una riga all’altra, e ovunque atterrassi, sebbene le storie e i personaggi fossero diversi, il messaggio del sogno non cambiava! Ovunque ricevevo lo stesso messaggio e sperimentavo questa beata riconciliazione con le cose più disparate.
Ho ricevuto diversi insegnamenti da tutte le dimensioni visitate ma purtroppo la beatitudine del risveglio non ha favorito l’immediato download delle informazioni nella dimensione mondana. Ho letteralmente combattuto, per tenere vivo il ricordo delle situazioni sognate, o quantomeno per fissare una traccia. Ma il sogno era appunto multi-traccia e dopo nove ore non ricordo altro che quanto sto scrivendo…
Il sogno di grazia
Alessandro W. Mavilio
Squarci
E sulle mie mani
una lebbra bianco latte
a suggerirmi la malattia della scrittura
accartocciata dalla polvere
cosparsa sulla memoria,
ora solaio di vecchiume.
Resterò a vagare per il tempo necessario
e quando mi riascolterò saprò
se la purezza della parola è riemersa
oppure stringe la voce nella valle dell’affanno
o saprò, dal colore dell’anima in cielo,
quanto i miei occhi saranno guariti.
Sii fiero se ancora la schiena scuoti
e dalle cadaveriche esistenze
vai riconciliandoti al cammino,
sii leggero se ancora dritto ti porti
sul viale della vita
nella sua pioggia di foglie.
Levitico
Agostino Forte
Poesie
Fecero cadere una lettera nello spazio
un’altra
e un’altra ancora
ogni giorno
esercitando l’esistenza
il compito giornaliero di vivere in mezzo agli altri
a tutto abbinavano un ricordo
al cadere dell’ora
della luce
del silenzio
da loro
dunque
ebbi messi al mio granaio
poco li vidi
eppure mi furono vicini
molto
accompagnandomi al balcone
a mostrarmi il giorno
facendomi spazio
nel rientro
per tutto l’impero della casa
centro del mondo non era la ragione
ma quel che lì accade
per nascita
sussistenza
e morte
un pane
che dall’impasto
per il cotto infino al consumato
sfornasse una teologia perfetta
sempre ricorrente
quotidianamente generata
nell’inesauribile forno del cosmo
delle immagini
tra noi
mai si definì una filosofia
sapendo
intimamente
diventare il crinale un nuovo paesaggio
il declinare in discesa
una nuova salita
ascoltavo ogni orizzonte farsi vasto
per quanto angusto
infinito
per tanto fosse breve
percorrendo i segmenti
di quel soffio in flusso
da cui
per frammenti di terra
o nei flutti
giunge un vorticare di vita
spinto a racimolarsi
in quel cuore
in quel luogo d’ogni dove
dove riconosce la sua sola magione
Vie d'acqua
Agostino Forte
Poesie
Se il mistero ti circonda...
Golconda
Se il mio amore ti accompagna
so soltanto che una volta
litigammo sul sofà
Golconda
Quando fu il tuo compleanno
preparasti dei bignè
Golconda
E nel mentre li riempivi
tu pensavi solo a me
Golconda
Poi volendo dar la festa
m’invitasti soavemente
Golconda
Al momento di stappare
la bottiglia di spumante
desti un grido e poi sparisti
Golconda
Prima ancor di udire il botto
tu lasciasti noi sorpresi
coi bicchieri ancora pieni ...
Golconda
*Alla metà del ‘600 Jean-Baptiste Tavernier, viaggiatore al servizio di Luigi XIV, scopre le miniere di Golconda sulla costa ovest dell’India. Da qui vengono importati diamanti, che sono donati alle donne, montati su un anello: grazie all’inalterabilità della pietra ne consegue un significato di fedeltà e di eternità del legame amoroso.
Golconda*
Guido Ammendola
Poesie
A volte mi alzo nel cuore della notte
e fermo tutti gli orologi.
Hofmannstahl
Non era la divinità, affatto, era
poco più di un sussurro alle prime pendici della collina,
era sul punto, su quella porta sempre difficile del sonno: e prese a dire:
ti descrivo
la vita d’ogni giorno, che nasce dall’impallidire dell’oscurità,
e di ogni notte, che si genera dallo sbiadire del giorno,
ti dico dell’ovvietà apparente dei giorni e delle notti, che viene a mancare
ai compagni andati
lungo la strada,
presto o tardi,
del comparire e dello scomparire, di chi va e di chi viene.
Ti porto
i luoghi visitati per lungo tempo, poi lasciati per nuova vita,
di nomadi attendati sulle carovaniere in attesa del buio;
dei deserti fioriti con la pioggia e di piazze affollate,
che sono deserti,
di città messe a ferro e fuoco, abbandonati relitti che affiorano,
tutte queste cose ti ricordo, nulla che tu già non debba sapere.
E poi non disse,
e pure mi giungeva, e non dormendo ascoltavo: sono
angolo di mondo, casuale
e prodigioso
evento d’atomi.
Dico di questa notte, in cui l’insonnia è ricompensa a sé stessa,
tormento di nascita,
spiaggia malferma a cui si affollano i versi
come un mare d’anime che invochino scrittura, come se scrivere fosse tornare
o restare,
e dico del tempo del silenzio.
Descrivo i giardini dove non si entra e da cui non si esce,
di come un nulla possa farsi distanza, come l’immenso si annienti,
ti dico: e, nell’immenso, dell’irrimediabile perdere,
dell’inatteso ritrovare e dell’essere ritrovato.
Il cuore sa il prodigio del mondo,
mistero d’evidenza, l’inganno necessario, continuità che appare ed essendo non è,
le figure della ruota che gira, del vettore che orienta, nulla
su cui non ti sia
interrogato.
Nulla che tu non sappia, ora: la bellezza e il dolore,
la ricerca di dio, l’evidenza del nascosto,
la ricerca dell’assenza,
le parallele incalcolabili delle parole e delle cose,
come innumerevoli stelle nel cielo terso della notte d’estate, o come
notte che nel lago si rispecchi.
E la notte si fece sovrana,
e l’eco si perse.
10 luglio 2018
Mistero d'evidenza
Carlo Di Legge
Squarci
Dicono: nessun paese del mondo
è accogliente,
tutti lo sono.
Segui le strade azzurre della mente,
fa’ come gli uccelli migratori,
parti.
E gli uccelli sono come i pensieri.
Pieni di vita, volano,
alle terre lontane se ne vanno.
Oppure,
dicono anche:
che tu viaggi oppure no,
resti, nelle cose più importanti.
Restare è come immobile viaggiare,
saper trovare
qui
le strade del cielo senza strade.
Dicono
Carlo Di Legge
Poesie
Su una panchina. Sul lungomare. Due donne.
Una donna anziana con gli occhi pieni.
Una giovane donna con gli occhi vuoti.
L’anziana siede col sorriso, stretta la borsetta tra le mani. Osserva il mondo.
La giovane siede inespressiva, immersa, pensieri e sguardo, nel suo smartphone di ultima generazione.
La prima guarda, intensamente, intorno: osserva i gabbiani e sorride per le loro dimensioni e la sfacciataggine che ormai li caratterizza; vede i bambini che tornano da scuola stanchi e affamati, affaticati da zaini che pesano realmente più di loro; guarda e ascolta i gatti in amore; segue con gli occhi una nave da crociera, la più immensa che abbia mai visto, che si allontana verso la Sicilia. Farebbe volentieri una chiacchiera, a casa non l’aspetta nessuno.
La seconda si perde in una solitudine digitale: osserva affascinata video di volatili che sfiorano le onde; si emoziona per immagini di bimbi in gita scolastica rimandati da vacue e fasulle amicizie virtuali; invia a tutti i suoi contatti fotografie di gattini che non accarezzerà mai; adopera con malcelata insoddisfazione un’app che simula viaggi meravigliosi. Non può perdere tempo in chiacchiere, è troppo occupata nel nulla.
L’anziana donna torna a casa sua con gli occhi pieni di tante cose che avrebbe da raccontare.
La donna giovane si avvia al suo lavoro con gli occhi vuoti, rimasti vuoti, dopo aver condiviso la propria solitudine con tutti e con nessuno.
Occhi
Serena Ammendola
Squarci
Non voglio più restare chiusa
in questo soffitto basso
dove i pensieri non volano
gli aliti si trattengono,
impallidiscono e muoiono.
Voglio toccare il filo
che conduce allo straordinario
e gettare i drappi della bellezza nel flusso latteo.
Le creature che restringono le vallate immense
occupano i minuscoli inserti
che dividono i mondi.
Noi cavalli cosmici ci gettiamo
nello spazio stellato di concetti
liberi e incoerenti.
Spazio cosmico di libertà
Francesca Carbone
Poesie
le labbra sono screpolate
la mano si aggrappa allo scalmo
la voce chiede acqua
l’occhio si apre e si chiude
la mente è cinta di ignoto
nei deliri si susseguono ombre
vita in forma d’illusione
e spettri in vortice che l’onda sovrasta
investe e scaglia lontano
risucchiando per sempre al fondo degli abissi
tra miriadi di bolle vorticanti
in quell’ora per la quale
vivi alla memoria e morti nella pelle
staranno in attesa del giorno
in cui la parola svegli le dormienti figure
con mani legate
ma con attento orecchio
per ala e coda di pesce
per sperone che strazia
e squama che fende
per serpe e fùlmine
per fruscìo e tuono
dal cielo si sfodera luce
da un così grande cielo
unico e senza uguali
da un tal cielo
giunge luce
e come occhiata sul mondo
scivola gioia e riparo
sfaldando menzogna
i nomi sono barche
e solcano l’oceano
la ragione
in rotta verso il prossimo naufragio
in silenzio
offre spoglia di amicizia
e in dissolvenza
nel punto di solitudine e morte
non ha voce per chiedere attesa
né sipario.
Il sogno, le barche, le sirene - 5
Agostino Forte
Poesie
Sonnolenza.
In dormiveglia,
qualcuno senza volto si presenta,
ottiene udienza.
Non so chi sia,
che rivede in dettaglio
le scritture del buio,
una notte di viaggio o poco più.
Scende la prima pioggia di settembre.
Nulla sembra sfuggire all’occhio involontario,
passa in rassegna i versi
come farebbe un condottiero
prima della battaglia.
Tutta l’incerta realtà che ci riguarda
d’improvviso è diventata
perentoria.
Settembre 2017
In dormiveglia
Carlo Di Legge
Poesie
Nei vecchi sobborghi di Parigi faceva capolino una libreria di un piccolo uomo dall’aspetto trasognante che tutti chiamavano Monsieur Mensonge. Questo strano ometto si distingueva per la convinzione con cui sosteneva di non trovarsi a Parigi e di non possedere una libreria. Ciò potrebbe indurre il lettore a pensare che l’uomo fosse un folle oppure che l’autore di questo scritto sia un gran bugiardo (se non altrettanto folle). Tuttavia, il lettore non si interroghi troppo e tenga a mente soltanto che può accadere che il reale sia menzogna e che frammenti di vero possano insinuarsi nelle sottili pieghe che intercorrono tra l’immaginifico e il razionale, proprio come i sogni rivelatori e quelle bugie che incredibilmente si tramutano in realtà.
Tralasciando la dimensione onirica o reale dell’accaduto, l’uomo colpiva per il suo aspetto gradevole, nonostante la natura non gli avesse regalato lineamenti regolari e un fisico robusto. Aveva un mento spigoloso e grandi occhi cerulei resi opachi da un leggero velo che ne lasciava scoperta solo la pupilla, nerissima e vivida. Se esistessero i calzolai degli occhi, si potrebbe immaginare che gli avessero lucidato la cornea come se fosse una vecchia scarpa. Nonostante la fatica e l’olio di gomito, solo la pupilla come la punta di una calzatura era diventata lucidissima mentre tutto il resto restava antico e vissuto. Aveva lo squarcio del velo di Maya negli occhi.
Nella banlieue di Parigi era per lo più considerato un folle: «Quel matto di Monsieur Mensonge!», gridavano le masse indignate, un poveruomo che aveva perso tutto nella vita e che viveva di letture noiose e vecchi dischi. Pochi, rarissimi lo consideravano un uomo illuminato, che aveva raggiunto vette del sapere non accessibili ai più. Probabilmente lo sovrastimavano o avevano bisogno di pensare che tanta solitudine e dolore fossero compensati da doni di saggezza. Tali sostenitori di princìpi di meritocrazia esistenziale si recavano sempre da lui e lo osservavano nei suoi lunghi silenzi e mentre, concentrato e serio, costruiva i suoi tesori quotidiani. Realizzava piccoli manufatti in legno che utilizzava per decorare la sua libreria oppure si immergeva in lunghe letture accompagnato sempre da una tazza di tè. Monsieur Mensonge sosteneva il culto delle mani: riteneva che solo attraverso l’atto del fare potesse emergere la vera bellezza e che le ruminazioni mentali imbruttissero.
Nonostante il suo aspetto poco armonioso, era sempre attorniato da belle donne, affezionate lettrici, anch’esse di una bellezza particolare. Proprio per le donne nutriva un profondo rispetto: vedeva in loro una sapienza antica, uno spaccato sugli abissi più remoti. Passando davanti alla sua libreria, si aveva quasi la sensazione che da un momento all’altro una diva del passato potesse palesarsi scendendo dalla piccola scala che collegava gli interni della libreria con i piani superiori dell’immobile. Sembrava che potesse materializzarsi Marlene Dietrich con i suoi lunghi guanti neri e che con voce seducente potesse invitarlo ad abbandonare i libri e a bere un buon caffè nei vecchi bistrot. Quell’uomo aveva sofferto molti patemi d’amore, ma ne era sempre affascinato e riteneva che fosse la potenza più forte. Raccontava che l’amore gli aveva dato accesso alle varie personalità che lo avevano abitato nel corso della sua esistenza. Che questa potenza lo aveva rivoltato come un calzino, distruggendo tutti i suoi schemi. Dagli amori ne usciva completamente diverso, irriconoscibile, quasi sfigurato, ma sempre più vicino a quella che era la sua vera natura. L’amore l’aveva aiutato a far fiorire i suoi germogli e, come tutte le cose che inducono alla crescita, agisce trapassando come un grosso spillone conficcato nelle viscere. Sosteneva che per ogni personalità vissuta, fosse avvenuto un significativo cambiamento di cellule. Insomma, una sorta di rivoluzione genetica di portata emozionale. Pensava anche che c’era un preciso motivo per cui le Emozioni decidevano di soggiornare nella sua interiorità. Per questa ragione, le custodiva come se fossero un oggetto di culto: anche per le più becere perversioni, per le peggiori pulsioni degne di un mostro, nutriva profondo rispetto. Le osservava e non osava criticarle, nonostante molto spesso non le perseguisse nei fatti. Aveva grande rispetto anche della signora Mente, soprattutto quando questa decideva di assecondare il suo bisogno di naturalezza e spontaneità. Amava meno il signor Ego, a cui ricordava sempre di avere un ruolo di mediatore e non di guida. Proprio nella lettura Monsieur Mensonge ritrovava un posto in cui tali elementi si riequilibravano: i libri erano per lui lo spazio dell’anima in cui costruzioni personali e sociali cadevano nel dimenticatoio a fronte dell’ignoto flusso di immagini. Continuava a blaterare che i libri hanno il potere di creare un sistema di simboli che si fissano dentro di noi come piccoli quadretti quasi a costituire una sorta di arredamento interiore. Alcuni si incastrano nella testa, altri si insinuano nella pancia o restano sospesi nello stomaco. Aveva creato la psicosomatica del libro così che anche i medici e gli psicologi lo odiavano e gli davano del ciarlatano. Da queste poche parole, si può intuire come avesse chiaramente delle rotelle fuori posto. Del resto, la sua poca normalità lo induceva alla Solitudine che egli dichiarava essere una delle donne che aveva più amato nella sua vita.
Davanti alla sua libreria vi era la scritta “Qui si vendono solo libri veri”. Gli altri librai del quartiere se ne sentivano profondamente offesi: «Come osa quel matto insinuare che noi altri proponiamo articoli falsi!». Eppure Monsieur Mensonge non si curava dei pareri altrui, sebbene l’alterità fosse per lui un sommo valore. E poi, se vogliamo dirlo, i suoi libri erano i più menzogneri che potessero esserci sul mercato. Sembravano quasi l’esito di una caccia a relitti nascosti o a verità subdole e sconosciute. Il libraio (anche se lui diceva di non esserlo) sosteneva che, un po’ come l’amore, questi libri erano nati nella dimora dei più profondi abissi e potevano plasmare il lettore. Per questo, erano estremamente sconsigliati a tutti quelli che vivevano sorretti da una finta impalcatura di sicurezza. “Vietata la lettura ai sudditi di Ego” si leggeva sulla copertina. Si trattava di libri complessi e oscuri che potevano presentare molteplici interpretazioni. A causa di ciò si era creata un’assemblea per discutere sul reale significato di essi e, come in un parlamento, si erano formate tre fazioni: i surrealisti, i realisti e gli intellettuali. Quest’ultimi erano quasi sempre cacciati dalle riunioni: vedevano nei testi solo citazioni e riferimenti, ma non sempre ne coglievano il senso. I surrealisti si aggiravano per l’assemblea aleggiando come uccelli impazziti e bisognava afferrarli per i piedi per rimetterli a posto. Capivano così profondamente i testi che ne scoprivano nuovi significati e alla fine della discussione sembrava quasi che parlassero di altri libri. I realisti, ben saldi sulla sedia, annoiavano tutta la platea e gli unici ad ascoltarli erano gli intellettuali convinti. Godevano di luce propria i realisti empatici, che erano ex surrealisti o ex intellettuali pentiti. Erano molto amici del libraio-non libraio e trascorrevano lungo tempo insieme a lui. Cosa facessero insieme non è possibile saperlo. Alcuni pensavano che fossero spacciatori di pensieri assurdi, produttori di castronerie illegittime e che facessero abuso del buon senso. Siccome non intaccavano né l’economia né il mercato non erano perseguitati. Di tanto in tanto ricevevano visita da surrealisti sovraeccitati o da intellettuali curiosi. I primi li tacciavano di eccesso di normalità, i secondi di pochezza nello spessore. Tuttavia, Monsieur Mensonge nutriva rispetto per ogni fazione, riteneva che in ciascuno di loro si nascondesse un tesoro inesplorato di valore unico e sublime. Inoltre non credeva nelle fazioni e soprattutto odiava le divisioni in categorie. Sua madre gli aveva insegnato che i migliori dolci contenevano sempre un pizzico di sale al loro interno e che anche il termine dolce andava preso con cautela. «Diffida sempre delle etichette», gli ripeteva di continuo Madame La Trompette. Con l’avanzare degli anni questo ricordo puerile non l’aveva mai abbandonato e nella sua stramberia Monsieur Mensonge vedeva le persone come dolci in cui scovare granellini di sale. A tal punto i lettori avranno già compreso che i suoi concittadini avevano dei buoni motivi per ritenerlo un matto. Erano persone perbene che si svegliavano ogni mattina per essere produttivi ed efficienti all’interno di un meccanismo perfettamente regolato di cui si sentivano parte integrante. Non potevano accettare assolutamente un uomo che fosse così estraneo agli schemi che predominavano in quella società. E i matti, si sa, hanno una visione distorta del reale.
Un giorno, Monsieur Mensonge, mosso dalla curiosità del confronto, decise di prendere parte all’assemblea. Al suo ingresso, i surrealisti incominciarono a starnazzare come volatili selvaggi e in segno di protesta abbandonarono il comizio. I realisti restarono silenziosi ma altrettanto contrariati strisciarono come serpenti lentamente fuori dall’aula senza proferire una sola parola. Gli intellettuali pronunciarono una lunga dissertazione sull’inadeguatezza di tale presenza e, una volta concluso il lungo discorso senza ricevere né applausi né elogi, abbandonarono l’aula, superbi come leoni. Mensonge, rimasto solo e senza alcuna possibilità di comunicazione e interazione, decise di abbandonare la città e, come sono soliti fare i vecchi saggi, partì per una meta sconosciuta. All’indomani della sua partenza, la libreria venne sequestrata e, come se non fosse mai esistita, non lasciò nessuna traccia. I suoi libri vennero censurati nel nome del buon senso comune, della logica e della coerenza. Tuttavia, la memoria di Mensonge rimase viva nei bar più squallidi di Parigi, nei chiacchiericci notturni di quei matti ubriaconi, perlopiù ex realisti empatici, che non curanti delle regole della società, continuavano a infrangere il buon costume ricordando le sue stramberie.
Non se la prendano i lettori se, essendo stati coinvolti in questo assurdo groviglio di mitico e reale, si siano sentiti presi in giro. Sono invece invitati a prender parte alle vane chiacchiere notturne degli ubriaconi e a dedicare a se stessi piccoli ritagli di follia in cui anche il pensiero di un vecchio e matto libraio possa avere un cantuccio.
Quel matto di Monsieur Mensonge
Francesca Carbone
Squarci
Non era un poeta
non conosceva il mondo
aveva gli occhi iniettati di melanconia
sguardo languido dei poveri.
Non conosceva l'uomo
e neppure la sua controparte
Non amava donne
e non c'erano streghe né fattucchiere
che lo avessero ammaliato.
Al diavolo offriva sigarette e caffè
lunghe pause di chiacchiere fumose,
alla gente indorava fregature e bugie
lunghi fregi di spazi silenti.
Sottili vuoti variopinti coriandoli
coloravano le bianche mura dei suoi aridi perché.
Si domandava se i Titani avessero costruito
le lunghe crepe dei Balcani
e se dei colpi delle spaccature
rimassero solo le brucianti melodie.
Con queste era solito fare l'amore
con quei qualunque qualsiasi
volti di genitali sconosciuti.
Breve storia qualunque
Francesca Carbone
Poesie
28 VIII 2032
Questa mattina la bruma staziona fuori dalla finestra. Spessa, fa scudo al mondo. Come quando ero piccolo, la protezione della casa muove un sottofondo di piacevolezza nel sentirsi al riparo da un freddo umido.
Mi siedo sulla poltrona con lo schienale avvolgente, ritiro le gambe piegandole a me. Non avrei immaginato questa prodezza fisica alla mia età.
Alcuni affetti sono scomparsi, altri lo faranno col tempo destinato, prima o dopo di me. E guardo. Guardo, ripenso e rifletto su alcuni aspetti della vita che mi hanno sempre accompagnato. Giacciono apparentemente sparsi, ancora in attesa di essere raccolti, lavati o gettati. Alla stregua di panni.
Ci si abbandona, in quei giorni, senza terrore, senza dubbi. Solo sguardo. Magari un’inedia spirituale. C’è tempo, ce ne resta ancora prima di lasciare questo comodo luogo di tepore. Non è più tempo di ritorno, o forse non è l’ora. È un percettibile risucchio ad attrarmi verso un estremo, altrimenti non violento, non angosciante. Traslazione inarrestabile, in lento scorrimento. A tratti la percezione dell’occhio puntato nel vuoto, come in attesa, fluttuante, un pensiero su due rive sconosciute, una inghiottita dal buio l’altra da venire tuttora alla luce. La ragione non è critica, ascolta il richiamo della coscienza, annuisce, rimane immota. Vi è l’assistere allo spiegarsi e al passare indenne per traslucide cortine. Non rimpianto ma ricordo. Lo svanire d’intorno non è cancellazione definitiva, se pur accompagna una condizione di disarmo. Gli affetti impallidiscono, sgranano, si sciolgono, fondono. Ogni condizione mentale è percepibile nel mutamento in atto. Cos’è la condizione mentale. Le leggi della vita non sussistono più, tutto è sospeso e al contempo precipita in qualche dove.
La memoria tenta riepiloghi. Un sembiante di uniformità avviluppa e cela il cambiamento.
È mezzogiorno, permane una foschia, le forme sono come ovattate ma cinte da una permanente aura di freddo. Figure, mansioni nascoste da corpi in movimento.
Dalla poltrona mi ritrovo alla porta, mi colgo ad aprirla, oltrepassarla. È come una brezza questa sensazione di essere in vita.
Attraversamenti di voci: – come farai a rivelare che non ti sei occupato di loro – come potrai non abbassare gli occhi quando sapranno che non li hai pensati – tacere non è una colpa – è come l’uomo dei gelati quando passava davanti a casa e per il prato si correva a chiedergli il desiderio. Era quell’uomo colpevole di custodire l’attesa?
Si sente un timore, si ha timore.
Ci si sente la mano tenuta.
Ancora non immaginavo ma arrivava.
Pur con tutto l'oro del mondo
Agostino Forte
Squarci
A Roma c’è un libraio strano, come lo sono tutti i librai, a modo loro.
Roberto ha una fumetteria in una stradina in zona residenziale, via Papa Clemente XII (il papa che aprì i musei capitolini al pubblico e che mandò un bibliotecario in giro per il mondo a cercare manoscritti). Spazio ridotto (oramai è la sorte dei librai indipendenti), ma fornitissimo, un punto di riferimento per gli appassionati. A volte, fuori, seduto su una sedia, ci trovi qualche ragazzo intento a leggere un fumetto.
Accanto alla fumetteria ha un altro locale ma è sempre chiuso. Nessuno ci entra mai e raramente viene aperto. Cosa si nasconde dietro quella porta? Una vera e propria libreria. Roberto non la apre perché la sua è una fumetteria e i suoi clienti vogliono fumetti. Ma lì, in quella stanza angusta, da anni, sono accatastati migliaia di volumi. Roberto non li ha mai messi in ordine e in realtà non sono in vendita, piuttosto a volte regala qualche libro a chi acquista fumetti. Romanzi, classici, saggi. È una babele di libri, tutto impolverato e senza una luce: nessuno può sapere cosa ci si può trovare.
A me non piacciono i fumetti, ma i libri sì e qualcosa mi ha spinto ad entrare in quella fumetteria, così, giusto per dare uno sguardo e fare una chiacchiera col libraio.
Roberto mi ha guardato con occhio torvo quando gli ho detto che non mi piacciono i fumetti ma quando ha saputo che sono un bibliofilo mi ha aperto la libreria segreta. Un universo borgesiano: ogni libro ne nasconde un altro, letteralmente. I libri sono stipati su scaffali ma per una fila di libri c’è n’è un’altra invisibile, nascosta dietro. E allora devi sfilare ogni libro per vedere quello che è posizionato dietro. Ho trovato una collezione di Steinbeck dietro i libri della Duras, un Brecht dietro Dostoevskij, una raccolta di Ezra Pound dietro un Calvino.
Ci conosciamo da poco io e Roberto, eppure sono bastate poche parole per capirsi. Ogni tanto, quando ho un po’ di tempo libero o quando voglio rilassarmi, vado nella sua fumetteria, lui mi saluta e con un sorriso mi dà la chiave. La chiave della libreria nascosta. Io esco fuori e a pochi passi trovo la porta, entro e sto lì, in solitudine a cercare tra migliaia di libri quello da comprare quel giorno. Pochi euro e porto a casa qualcosa.
Chi ha la passione della lettura dovrebbe abituarsi a comprare dai librai indipendenti, non nelle grandi librerie e ancora meno sul web.
Noi “lettori selvaggi” e trafficanti di libri, affetti dal morbo di Gutenberg, conosciamo bene la bellezza della ricerca tra decine e decine di volumi per scoprire, magari dopo un’ora, un libro che inaspettatamente ci viene incontro e che stava aspettando proprio noi.
Ieri è toccato al Rinocertonte di Ionesco…
Storie di librai bizzarri
Aniello Fioccola
Squarci
Quando cammini si levano le musiche
Quando cammini si levano le musiche
Sono passi di litanie africane
grovigli di eco accartocciati
richiami profondi del tuo nome.
Sporgi l’orecchio. I corpi suonano.
Tocchi di mani che vedono
battono profondi rimbombi
intrecci di capelli sviolinano ai venti.
Nascosta nei profondi abissi
ogni corpo ha la sua melodia.
Ora
Sporgi l’orecchio
Spegni la mente
Accendi i sensi
Ogni corpo ha la sua melodia
Non spegnerla.
..........
Stracci d’amore
Non vedo che la terra nera dei tuoi occhi
nei miei percorsi senza meta.
Stracci
dei
miei
occhi
diventati
sporchi
caliginosi
neri
riflettono
l’inferno
di
ghiaccio
delle
tue
mani.
Due poesie
Francesca Carbone
Poesie
Oggi, domenica pomeriggio, la passo in colloquio
con il mio poeta messicano,
che a sua volta parla con John Cage: Silencio es musica,
musica no es silencio, e poi: Nirvana es samsara,
samsara no es nirvana. Non
basta: per una
di quelle strane coincidenze
che abbiamo sott’occhio senza farci caso,
immediatamente
un amico, che ogni tanto si fa vivo, mi manda una lettura di Itaca
di Kavafis, e
aggiunge le note
molto tristi e maestose d’una musica greca.
Pensando alle sincronie del mondo,
continuo ad imbattermi nel mio poeta:
Anima mundi, e el presente es perpetuo.
Sopraffatto da citazioni,
risalgo a prepararmi un caffè
e mi trovo nel fresco insolito (è luglio)
della giornata,
nella luce scolpita dei colori della montagna e del cielo.
Un pomeriggio, penso, si dissolve in incalcolabili caratteri
di pomeriggio, diventa segno,
e così la vita.
Non so se mi lascio vincere troppo facilmente, mentre
intorno si uccide per qualche sciocchezza,
e noi stessi siamo cacciatori e bersaglio,
in pensieri e opere, parole e omissioni.
In me, da non so dove, arriva un avviso:
cielo sopra, montagna sotto (tutto comincia a
mettersi insieme). Adesso la percezione
della montagna e del cielo
sta spostandosi, si fa materia
in quell’antico paradosso che ho davanti a me,
qui, in casa: sta sul tavolo, immobile
come una cosa qualunque, il Libro dei mutamenti,
il libro che non sta mai fermo.
No, mi vedo quasi scuotere il capo, non è un mondo per lo spirito,
o resta comunque
indeciso, che lo sia.
Ma un po’ più tardi vado al Libro,
e leggo, al segno Cielo sopra, montagna sotto, La ritirata. Riuscita.
Nel piccolo è propizia
perseveranza. E il mese, dice il
Libro, è adesso: luglio.
2 luglio 2017
Luglio 2017
Carlo Di Legge
Poesie
- Il re -
Chissà come deve sentirsi un re,
in bilico sul trono,
senza poter cadere mai,
con le scarpe laccate d’oro
e le suole tutte rotte.
Chissà se è felice il re,
con gli occhi tristi e la maschera da buffone,
il cuore solitario e la lacrima di Pierrot.
Vorrebbe solo cadere il re,
abbandonare le bolle d’aria
della campana di cristallo,
slacciarsi le scarpe nuove
e inciampare per le strade
tra i germogli di vita vera,
tra i briganti e gli alchimisti,
tra i vincitori di niente e
i campioni di normalità.
Chissà come si sentirebbe il re,
se accettasse la sua umanità.
- Il dono -
Librerà sospeso nell'aria
un rosso germoglio.
Si tramuterà in lucciole splendenti
a illuminare gli spazi interni
delle tue soffitte interiori.
Due poesie
Francesca Carbone
Poesie
È sempre stato un po’ in disparte,
qualcuno crede che sia presunzione,
in realtà è difesa di timidezza
e qualcos’altro, forse.
Questo pensa di sé, vedendo
come gli altri si fanno avanti.
Eppure sa stare di fronte alla gente,
o a un altro uomo,
e fa sorridere una donna.
Se si tratta di mostrare coraggio,
anche questo sa fare.
Il tempo gli ha detto che non è da meno
di tanti altri,
ma un uomo, anche se si mostra forte,
nel migliore dei casi
conserva qualcosa di fragile.
Continua, a volte, a sentirsi
messo in disparte.
Vero che avrebbe potuto di più,
e senza dubbio falso.
15/5/2015
Un po' in disparte
Carlo Di Legge
Poesie
1.
"Il dolore per la crescita"
Kairòs, l’occasione è persa.
È stata stretta nelle maglie spietate dell’incognito.
Prova a sentire. La senti la voce stridula, il singhiozzo tremante,
la smania asfissiante dei suoi pensieri?
Kairòs, ormai rivolgi parole di disprezzo (1) a chi permane nella sua condizione.
“Ha superato l’età delle scuse, dei permessi, dei rimproveri.
È libera, lo capisci? Ha le chiavi della sua prigione (2)”
.
Kairòs, anche tu ormai rifiuti di sostenerla.
La lasci lì sola e perduta.
(1) È un superbo dal petto grosso.
(2) È distratta, le ha perse o le ha davanti agli occhi ma non le vede.
2.
"La burla"
Questo amore è una farsa,
è consumismo,
è una merce usurata barattata in uno squallido mercato,
è la sopravvivenza di chi possiede ma non sfrutta,
è la ricchezza di chi ha ma nasconde,
è lo schema di chi si è arreso alle sue dipendenze,
è il whisky a cui l’ubriaco è sottomesso.
Questo amore è metafisica, è sofistica, è il filosofare qualunquista
dei ciarlatani che non sanno godere del buon vino.
Questo amore è la croce di chi si arrende all’inganno, all’abitudine,
all’inerzia, alla polvere accumulata, agli agrumi aspri delle terre inquinate.
È poesia dei buffoni,
è menzogna degli arresi,
è una satira che ride di sé.
È la burla di un comico travestito da re.
3.
"Restano il pruno e il ciliegio"
Restano il pruno e il ciliegio
degli infiniti abbracci
sul colle rosaceo
nei tramonti spenti.
Fa gola l’aridità delle erbacce.
Fa eco lo stridore degli sterpi.
E i sognatori illusi si macchiano con le fragole.
4.
"Di poeti, idioti e puttane"
I poeti si amano sui cigli delle strade
in mezzo agli orti di viole
tra i re distratti
persi a fare i conti con le loro sottomissioni.
Tra i muri scalcinati,
donne, puttane e maghe,
l’oro nero della città
e l’idiota le ama.
I poeti si raccontano nei vicoli inquinati
le menzogne quotidiane
tra le scale sporche di un vecchio quartiere.
E l’odore del pane e il gusto del vino,
quello i poeti non lo sanno raccontare.
E l’idiota beve
ed è già pronta a cedere la puttana
il piacere che esplode
nei piccoli vicoli della città.
Quattro poesie
Francesca Carbone
Poesie
Partire, prima un pullman poi la nave:
per ciò che importa, c’è di mezzo il mare
Non sbagliare fermata,
forse non era quella.
Se ti trovi una fermata avanti,
torna indietro, e riparti.
All’arrivo,
dovresti trovare la tua borsa,
l’hai lasciata, nella fretta di tornare.
Sappi usare il tempo di arresto,
parla con l’autista, è ben poco gentile:
il biglietto, lo devi rifare.
Siamo in tanti a tornare.
Le borse da viaggio sono tante,
si somigliano, poggiate per terra,
la tua, la ricordi, come se la rivedessi.
Sembrava troppo piena. Un po’ in disordine.
Non la trovi. E poi, come
se non bastasse: non trovi il portafogli,
carta di credito, telefono.
Non ti ritrovi.
Nel gioco, hai sbagliato la fermata,
e qualcosa non torna.
Dove sei, non domandarti.
Non puoi sapere.
Maggio 2017
Sconcerto
Carlo Di Legge
Poesie
Confido un mio sentire, l’ispirazione a mio avviso è un po’ come la Grazia cristiana.
Oggi chi scrive, chi recita, chi dipinge, chi si dedica in qualche modo all’arte tende ad appropriarsi o a considerare suo un dono che l’universo fa alla vita, all’umanità in generale e di cui l’artista non sa.
Ho sempre visto nell’uomo che si dedica all’arte o che vede fiorire un talento, niente più che un canale: la sua, se vogliamo chiamarla in qualche modo, grandezza, sta nel mantenersi “vuoto” e permettere al divino di compiersi e fiorire “attraverso” di lui
.
Ecco, forse, perché in virtù di questo sentire, quel “fare e disfare” diventa modo di vivere.
L’atto creativo è un fare e disfare continuo, distruggere e ricostruire, e poi di nuovo veder rinascere, non c’è attaccamento, né aspettativa ma solo apertura smisurata di ciò che Gurdjeff definiva “centro emozionale superiore”, che si attiva a mio avviso in presenza dell’ispirazione e che nasce da un sentire che trascende l’individuale e si apre al collettivo, al transpersonale.
Struggersi non è un male: uno dei mali dei nostri tempi è aver messo da parte il canale emozionale.
Riflettevo, giorni fa, su come oggi sia un diktat essere pronti e rapidi nella risposta quasi a riflettere il mondo veloce e caotico in cui viviamo, ma questa risposta rapida deve essere sempre uno scioglilingua della mente, deve tendere a dimostrare la sagacia, e insieme il disimpegno e l’ironia cinica di chi la dice. Ecco disimpegno e cinismo sono le chiavi della nostra epoca.
Il cinismo conferma l’intelligenza, e il disimpegno sottolinea il non coinvolgimento del cuore.
Se non sono coinvolto, non mi tocchi, sono quindi potente e invulnerabile.
È la costruzione dell’eroe moderno che in assenza di etica e morale ha sostituito il kálos e agatós con accumulo, serialità e immagine.
Costruire e mantenere un’immagine rende cinici perché sconnessi dalla parte ombra, da ciò che immagine non è.
L’emozione è vulnerabilità, è svelare che puoi toccarmi, e dal tuo tocco posso rimanere sconvolto, è conferma dell’antieroicità, ma anche epifania dell’uguaglianza. Nel reame del cuore non esiste gerarchia o supremazia. C’è solo la meraviglia di un cuore vulnerabile, l’umanità svelata.
E qui mi sembra naturale parlare di Chögyal Namkhai Norbu (che significagioiello del cielo).
Ho conosciuto Rinpoche nel lontano 2003, in Toscana durante uno dei suoi ritiri a Merigar, vicino Arcidosso.
Ciò che mi ha colpito è stata la sua grandissima semplicità. Le cose essenziali, quando le incontri, hanno un profumo particolare che sfronda la vita dell’inutile e ti riconduce al centro.
Il centro di sé e delle cose è una matrice elementare ma è nel “riconoscimento” che accade l'epifania di senso.
È come guardarsi in uno specchio. Prima sei distratto da centomila cose, corri, vivi a metà, non comprendi se non a tratti, parzialmente e attraversando mille anfratti, poi d’un tratto incontri “lo specchio”. Immediato, nitido e nudo, ha la valenza di uno choc, è come uno schioccare di dita. E d’un tratto ti liberi delle parole, dei significati mentali, dei dogmi, delle costruzioni, degli intellettualismi, delle filosofie. È un’altra strada: ci sei, sei presente, connesso e vivo, e in questo riconoscimento vacilli di riconoscenza e commozione perché senti un amore smisurato che è insieme per lo specchio che ti riflette, per te, per la vita e per il mondo, in un solo attimo indissolubilmente connessi.
L’arte scaturisce da questo, dalla connessionee insieme dal vuoto, è un paradigma di fiducia, di resa e di presenza.
L’arte non è nell’opera ma nel gesto, è il gesto “pulito”, scevro da ambizioni e ricerca del risultato, eppure pervaso di passione a fare arte, la perfezione intrinseca dell’atto, perfetto in sé, che non si compiace ma si arrende al senso proprio dell’essere, alla meraviglia del divenire.
Quest’atto che incarna la vita, che nasce dal vuoto e torna al vuoto ha una sua straordinaria bellezza, e non ha alcuna importanza se il risultato è una frittata o la cupola Sistina. L’arte sta nell’atto ma si riflette nell’opera.
È un atto umile: ci si fa piccoli per accogliere il Grande, si mette da parte la ragione per accogliere il mistero, si entra nell’utero del mondo in punta di piedi, perché in ogni autentico gesto creativo c’è l’apertura incommensurabile della “Madre”. Ogni madre conosce cosa vuol dire mettere al mondo un figlio, gesto d’amore che, privato della retorica, resta intriso di umiltà. Ci si mette da parte, il corpo fa spazio all’altro da sé, all’incommensurabile senza misura, senza voler comprendere.
Si nasce perché qualcun altro ci fa spazio, è lo spazio la matrice dell’amore.
Arte ed emozione
Chiara Tortorelli
News
Al mercato delle stoffe, trovo un drappo
di grande qualità,
color d’ocra gialla e rossa,
lo metto da parte per l’acquisto.
Il mercante mi dice: non tutti le riconoscono,
le buone stoffe. Costa molto.
Poi vedo un piccolo centrotavola ricamato,
d’intenso azzurro, il più bello che ci sia.
Ma – dov’è il drappo?
Per quanto io lo cerchi, non si trova,
come se non ci fosse mai stato.
È strano.
Qualcosa d’importante non c’è più,
altro è comparso, ora sembra che stia
al posto di quello.
Al mercato, le forme si presentano, sembrano certe,
e indietreggiano,
fino a scomparire.
Mi sento come se fosse colpa mia,
qualcuno può pensarlo.
D’improvviso, anch’io sono cambiato.
Non so più come acquistare il piccolo copritavola,
il più bello che c’è.
Viene notte, non dormo.
Le stelle impallidiscono,
il giorno mi ferisce.
Il pavimento è un vuoto senza fondo.
C’è sempre stato.
7-18/4/2017
Al mercato delle stoffe
Carlo Di Legge
Poesie
L’8 aprile 2017, presso il Cineforum “Malva2” di Sapporo, ha avuto luogo la proiezione di una selezione di cortometraggi DOEI Taoist Movies, di Alessandro Mavilio, scrittore e film maker residente in Giappone dal 2004, e autore del libro “Il Recinto. Sguardi e riflessioni sul Giappone” (Napoli, Ed. orientexpress, 2016).
I “Taoist Movies” sono un tipo di film sperimentale a cavallo tra documentario e fiction, caratterizzati da storie brevissime, girate o colte principalmente per strada e più raramente in ambienti chiusi.
Nato dalla personale esigenza di conciliare la cinematografia a un modus operandi moderno, immediato e quanto meno violento possibile, il marchio “Taoist Movies” viene dalla fusione dei concetti di Tao e Strada. Il concetto di Tao assicura la necessaria attenzione del film-maker alla naturale indole/inclinazione di strumenti, luoghi, soggetti e oggetti della ripresa. La Strada, intesa come consolidazione del concetto di sintassi, di flusso e storia – in chiave urbana e quotidiana – si propone come principale, ma non unico, luogo di ripresa e racconto.
Direttamente dall’autore:
Ho accolto con piacere l’invito del signor Matsunaga, organizzatore del cineforum “Malva2” di Sapporo, di proiettare una parte dei miei Taoist Movies, girati a Kyoto negli ultimi dieci anni in cui vi ho abitato.
Grazie alla pubblicità di due articoli di giornale (Giornale di Sapporo e Giornale di Hokkaido) sono accorse alla proiezione molte persone, alcune addirittura da altre città di questa grande isola.
Selezionare e proiettare i corti è stata un’esperienza davvero particolare: è stato per me come riaprire un baule particolarmente prezioso. Considerato che in dieci anni ho girato più di duecento corti, la selezione non è stata certamente facile, anche se alla fine ho dovuto scegliere l’opzione che meglio rendesse la natura e l’evoluzione del progetto, affidandomi quindi a un naturale ordine cronologico.
Da tale scelta è emersa una dimensione tecnologica e visuale inaspettata: i primi filmati erano in definizione standard e a mano a mano che la proiezione andava avanti e gli anni passavano la risoluzione delle immagini aumentava fino ad arrivare alla Alta Definizione, oggi ormai abituale anche per gli sguardi più distratti. Pur sapendo di non aver mai forzatamente aggiunto ai miei film una “patina vintage” o particolari effetti di colore, i film di soli dieci anni fa sono apparsi a tutti come dei veri e propri filmini d’epoca.
La proiezione vera e propria è durata cinquanta minuti ed è stata da me pensata per scorrere fluidamente, senza calcare troppo i vuoti naturali tra la fine di un corto e l’inizio del prossimo. In questo modo è stato come assistere a un unico film che – visto quanto detto anche sull’aumento della definizione negli anni – avesse la curiosa e rarissima caratteristica di maturare, a vista d’occhio.
Il primo filmato, in realtà introduttivo, è un esercizio di montaggio/sabotaggio del tempo da me fatto nel 2004. Si chiama “Ho sognato questo” ed è una brevissima sequenza di un film di Yasujiro Ozu che ho estremamente rallentato - e dunque allungato - per poter permettere al suo interno una sorta di esplorazione aggiuntiva degli spazi, delle storie e dei personaggi. Il titolo è in realtà un riferimento affettuoso al film “Sogni” di Akira Kurosawa, argomento della mia tesi di Laurea all’Istituto Universitario Orientale di Napoli.
“Questo filmato, in prima posizione nella sequenza di proiezione, ha posto il pubblico in una modalità ricettiva da ‘vero cinema’ e certamente ci ha portati a recepire l’intera proiezione in una ulteriore modalità cine-onirica.” – Sig. Yoshio, regista e autore televisivo.
A seguire, una serie di “Taoist Movies” veri e propri, direttamente girati da me per le strade di Kyoto, alcuni senza dialoghi, altri con sottotitoli in giapponese, inglese o italiano.
“Sono venuta alla proiezione aspettandomi di vedere delle ‘cartoline di Kyoto’ e invece mi sono trovata a fissare e notare con incredibile interesse i dettagli e le storie che ogni angolo di città offre nei momenti più insospettabili. Non capisco né l’inglese e né l’italiano, e tuttavia l’impossibilità di capire il livello testuale ha esasperato la mia concentrazione su quanto scorreva sullo schermo. Sì, è stato davvero come sognare!” – Sig.ra Takeda, Centro Culturale di Asahikawa.
Altri commenti:
“Vado spesso a vedere filmati sperimentali. Questi sono stati i 50 minuti più veloci che io ricordi!”
“La prima immagine di ciascun corto, pur sapendo come un Taoist Movie nasce e viene girato, aveva la potenza di un vero film e sembrava promettere ogni tipo di storia.”
“Il Giappone, come lo filmi tu, sembra un luogo del tutto alieno… Sono confuso.”
Dopo la proiezione hanno avuto luogo un lungo dibattito, moderato dal sig. Oshima, docente di cinema alla Università Informatica di Hokkaido, e la consueta sessione di domande e risposte con il pubblico.
Durante il dibattito ho avuto modo di definire nuovamente al pubblico presente, e a me stesso, i motivi per i quali da sempre sono interessato alle immagini e quindi prediligo il cinema per la sperimentazione con esse. Il sogno è forse la prima vera tecnologia a disposizione dell’uomo. È un peccato (e un assurdo) che non si sia mai sviluppato un filone espressivo, in senso tecnologico più moderno e attuale, che festeggi il sogno, quotidianamente e fuori da camere da letto o studi psicanalitici, allo stesso modo in cui le società festeggiano la ragione, le religioni, e a sfumare, tutte le altre categorie che riempiono le nostre giornate da svegli.
A mio avviso occorre una vera e propria ‘riconciliazione con le immagini’. Esse abitano l’inconscio personale e inondano la società in cui viviamo. Si potrebbe dire che le immagini siano da sempre dotate di una vita propria. Se anche ciò fosse solo un’illusione esclusivamente umana, dovuta alla troppa immaginazione, nel dubbio… il mio tentativo di riconciliazione con esse.
Su tale riconciliazione conto di fondare la ripresa del mio progetto “Taoist Movies”.
Alessandro Mavilio
https://www.orientexpress.na.it/x/read.asp?q=78&s=De%20Sio%20Lazzari
DOEI Taoist Movies a Sapporo
Redazione Orientexpress
News
Da tempo vivo con questa donna.
La tela del maestro confonde
carne e fantasma, come i giorni con gli anni.
Per me, mortale, ogni giorno è un nuovo giorno:
un giorno, un anno, per lei non è diverso.
Quando fu viva, non poteva immaginarlo,
ma il suo tempo non conosce fine.
Nessuno sa chi fu, né dove sia.
Vivo con lei da molto, questa donna antica e giovanissima.
Immagine, non corpo, me lo ripeto a volte.
Se fosse qui, in gesti di confidenza,
la consolerei dei crucci, parleremmo
delle irripetibili stranezze del destino.
Saprei come toccarla, se si lasciasse andare,
nonostante il vestito color d’oro d’autunno.
Benché nessuno possa mai raggiungerla,
gira la testa a guardarmi, dal lato sinistro;
un lampo di malizia, sembra che m’inviti,
ma gli occhi avvisano: fuggirò, se vieni avanti come un uomo,
e in quell’istante mi cattura.
Dimenticarla non posso: di lei resta come una ferita,
un senso di labbra che si schiudono,
un cenno di candidi denti
con un riflesso di rossetto.
Dalla pelle chiarissima indovino il colore dei capelli coperti,
avvolti nella luce.
Amo il brivido che dai secoli risale,
la conosco di quella compiuta conoscenza
dove il sempre è fratello del mai.
Nel frattempo
si concede a milioni di uomini, restando fedele ad ognuno,
e mi sento geloso di lei,
solo un po’, forse non quanto dovrei.
marzo 2017
La ragazza di Delft
Carlo Di Legge
Poesie
Chiariamoci: è notte.
Apro gli occhi disturbato dal vento insistente e umido e da un rumore fastidiosissimo. Apro gli occhi, ma per un po’ non mi è dato di capire. Il mio è un risveglio inatteso. Mi trovo molto in alto da qualche parte, è chiaro, certamente in pericoloso bilico, e il corpo è contratto istintivamente forse per salvarsi e salvarmi. Ho la netta sensazione di aver scisso intellettualmente anima e corpo. I due non stanno agendo insieme come fanno sempre: l’uno è paralizzato e l’altra… pure, nella speranza che il corpo non ceda.
Ho gli occhi spalancati da un pezzo ormai ma - come se fossi un bambino in fasce - la visione effettiva arriverà con molto ritardo. Da qualche minuto dal risveglio ho percepito il fastidio di un vento caldo e umido, e questo ululato continuo.
Finalmente riesco a mettere a fuoco. Ho le dita avvinghiate alle sbarre sottili di un balcone. Queste sbarre sono dei normali tondini da costruzione, di quelli che normalmente stanno nelle colonne di cemento armato, freddi e zigrinati al tatto. Devo trovarmi su un balcone concepito molto tempo fa e senza troppa attenzione alla bellezza.
Aurora. Riconosco il cielo e il porto di Napoli. Il golfo è impegnato da navi e traghetti in movimento. Ci sono navi tanto grosse che se lo volessero potrebbero chiedere al Vesuvio di fasi da parte. Eppure queste navi si muovono con agilità e maestria e soprattutto in silenzio. L’ululato che continuo a sentire non viene dalle navi. Guardo il cielo con una linea di alba e riconosco il settore di cielo di Capodichino. Sì, ci sono aerei in circolo e in attesa di atterrare, anche loro… diligentemente. Come per magia, con gli occhi al cielo posso ascoltare le comunicazioni in inglese della banda aerea.
Torno a guardare giù è mi sembra di capire che l’ululato fastidioso provenga dall’angolo di un palazzo giù in piazza. Noto quanto quell'angolo sia esposto, urbanisticamente sfacciato, un vero e proprio fastidio per gli occhi e le traiettorie. Sento in un attimo la storia di quel lotto: non vi era una strada al lato della quale fu costruito il palazzo bensì fu costruito un palazzo nel nulla e la strada vi si adattò dopo. È da quell'angolo del palazzo che proviene l’ululato.
Dai ricordi di giovinezza viene fuori il nome di un amico, Giorgio, dal quale devo aver imparato il termine ‘ufera. Bufala o bufera? Adesso i due termini sono coincidenti, per un napoletano di città entrambi sono termini di un discorso mai reale, mai sperimentabile. Questo rumore che ascolto può essere infatti un lungo muggito così come il fischio del vento insistente. Eppure…
Sono giù in istrada e tocco con mano lo spigolo di quel palazzo rumoroso. Attorno a me c’è devastazione – c’è stata una guerra in mia assenza – penso. Sbircio nel palazzo, malridotto a ben vedere, e dentro vi è attiva una stireria industriale, che devo per forza definire di regime. Centinaia di donne stirano divise misteriose. C’è il tipico odore di vapore e chimica. Alcune donne escono e in fila indiana, calpestando un sentiero devastato di via Marina, si dirigono da qualche parte. Il mare nero è alla loro destra. Anche loro fanno tutto con rassegnata diligenza. Le seguo per un pezzo ma è chiaro che le poverine dovranno andare molto lontano. Portando le loro ceste di panni.
M’incammino anche io invertendo direzione e puntando con decisione verso Santa Lucia. In questa Napoli per me assurda decido di andare alla mia vecchia scuola. Lì ci sarà qualcuno che si ricorderà di me e che mi spiegherà cosa è successo negli anni. Senz'altro ci sarà qualcuno e cammino a passo veloce pensando solo “senz'altro, senz'altro, senz'altro”. Attraverso i vicoli più misteriosi di Napoli, del Pallonetto, i vicoli più remoti e rimossi, quelli che io frequentavo da studente e che – oggi ci potrei giurare – nessun napoletano per bene ha visto e vissuto come ho fatto io, con i miei compagni d’arte, nella protagonista spensieratezza del nostro tempo giovane.
Cammino e cammino per vico Solitaria, in questo vicolo in leggera pendenza, deserto, dove comincia a piovere improvvisamente il sole della mattina. Non c’è nessuno ma sento voci, sento gli odori della vita: urina, colazioni, detersivo, muffa… Mi fermo, chiudo gli occhi, e sento il rumore di un tappeto sbattuto e, ancora, il canto delle lavandaie del Vomero, intonato da una casalinga, tanto seria – apro gli occhi – da essere in camice azzurro.
Fermo e solo, vengo sopraffatto dal pensiero che è domenica di un’epoca sconosciuta.
Dal nulla, Napoli.
Alessandro W. Mavilio
Squarci
Mi sono tuffato a letto, a pancia sotto. Ho chiuso gli occhi e in men che non si dica dai lati del campo visivo mi ha raggiunto il buon vecchio amico floreale: dal nero del campo totale, il caleidoscopio ipnagogico che ben conosco da bambino. Poi, distintamente, al centro dei miei occhi chiusi, una pupilla e un’iride al negativo e… hop-là, ero dentro! fluttuando in uno spazio senza particolari riferimenti se non quello delle sollecitazioni inerziali del mio corpo che galleggiava, si dirigeva, vagamente discendendo, come attratto da qualcosa.
Ero nella casa che spesso occupo nei sogni. Stanotte ci ero di nuovo, la riconoscevo perché è identica a quella reale, e come nei sogni del passato cercavo di raggiungere la seconda ulteriore casa, di mia chiara proprietà, speculare alla mia e che so per certo di non aver mai arredato, una casa che so esserci e aspettarmi spoglia e pura. Una casa tanto convincente e insistente che per mesi ho creduto di possederla davvero da qualche parte, anche da sveglio! E addirittura di pagarci le tasse...
Poi incontro gente, ma sempre con la latente coscienza di star vivendo una timeline parallela. È estate e geograficamente mi rendo conto di essere certamente in Oceania, Australia o forse Nuova Zelanda. Più probabilmente Australia. Lo so perché, espresso il dubbio, adesso aleggia un vago concetto aborigeno e il viraggio dell’esperienza visuale diviene rossastro.
Raggiungo la casa di persone occidentali. Una villa moderna, bianca e abbagliata dal sole. Dopo un veloce itinerario di saluto nel suo interno, mi raggiungono da fuori le voci e il rumore degli spruzzi di coloro che si divertono in piscina. È la casa del mio amico Terence, morto prima che potessi conoscerlo, ma che adesso è lì, vivo e vegeto, davanti a me. Mi indica sua figlia sul bordo più lontano della piscina e velocemente mi ragguaglia sugli altri presenti: amici in visita, conoscenti. Per sua figlia nutro un sentimento di pena. Ricordo quando le mandai davvero una email, alla quale non mi ha mai risposto, e per la quale dovevo esserle sembrato quantomeno sbadato, se non insensibile. Terence mi invita a entrare in piscina, come fa lui, anche tutto vestito. E così faccio, intuendo che in questo mondo i vestiti sono un involucro virtuale, senza particolari proprietà fisiche. Entriamo insieme in piscina, coricandoci lentamente sul pelo dell’acqua, di schiena, e lui mi istruisce su come immergermi completamente e su come continuare l’immersione in quella posizione. Mi ricorda di non preoccuparmi di respirare perché anche il respiro è una convenzione estranea al mondo che sto visitando e… del resto, sono lì per imparare cose nuove.
Immerso nella piscina, a occhi rigorosamente aperti, incontro con lo sguardo il sole abbagliante, che mi raggiunge dall’alto e dall’asciutto, e a mano a mano che mi immergo, sempre in quella posizione, capisco che il perimetro di questa piscina rivela le caratteristiche esterne di una terza casa nascosta. Nella piscina vi sono infatti finestre e porte sommerse che danno accesso a un’ulteriore dimensione architettonica, esplorabile con la stessa modalità con cui il sogno è iniziato: fluttuando senza peso, come spinto da una gentilissima corrente o come attratto da qualcosa di finale, in quest’acqua che non è aria, ma che forse è tutto.
Una volta compreso l’incomunicabile, il risveglio è estatico.
Il sogno della casa nella casa
Alessandro W. Mavilio
Squarci
Ci sono cose
per troppo tempo nascoste,
o meglio, erano anni che venivano fuori e scomparivano,
come presenze a loro modo vive,
e me ne dimenticavo.
Così ho disteso
le foto dei morti sul pavimento
(per la visione d’insieme,
prima di sistemarli nell’album).
Ma nulla di più inafferrabile dei morti,
e così vanno in giro, qui in casa.
Qualsiasi foto può portare ovunque,
nelle terre del ricordo e della suggestione.
Il tempo, con i suoi passaggi,
in molti casi ne fa immagini d’ignoti,
e restano i volti o le figure.
In quegli atteggiamenti
si legge qualche intento o un segno di passione,
mentre so bene che, chiunque fosse,
è sfumato, come un’illusione,
e non si sa più chi sia.
Lavorando ai morti,
pensando ancora come fosse qualcuno
quel nulla di cui restano le foto,
ed è come avere un piccolo regalo di verità.
Così vanno le cose.
E non solo trovo immagini, ma partecipazioni di morte,
con le preziose date, in modo che per un attimo
il tempo si riappropri un senso.
Il figlio alla madre,
la suocera alla nuora,
quella mano tremolante
che ben conosco:
ogni vita sembra essere qui, dalla foto del neonato al funerale.
Resta l’illusione sull’individualità dell’anima,
ma è percepibile in una minima distanza
ciò che separa l’inizio dalla fine.
In fin dei conti, devono essere loro, i morti, a farsi avanti,
i morti che lavorano, di certo,
a decine, forti
e impercettibili, eppure presenti,
come l’aria.
So che d’improvviso, ancora,
da un momento all’altro, qualcuno di loro può saltar fuori,
e già mi preparo,
sentendomi un po’ in colpa,
a dirgli qualche parola, come a me stesso:
coraggio, amico, non è niente.
Nocera Inferiore, 18-19/1/2017
Il lavoro dei morti
Carlo Di Legge
Poesie
Non credo di avere un punto di vista.
Qualunque cosa io pensi
di solito cambia.
Curo casa come riesce,
cerco un senso nei libri
e in qualche incontro,
qualcosa sempre turba.
Qui nell’intrico di strade
modifico me stesso
aprendomi verso ogni direzione.
Ogni giorno mi sveglio e guardo il mondo
come se fosse un miracolo.
Non so che cosa sia, vedo
che finirà presto.
E tuttavia spesso s’alza
il vento furibondo,
e vado con lui.
Dicembre 2016
Il vento
Carlo Di Legge
Poesie
La piccola città si distende nel senso della valle,
da Nord a Sud, a Est,
tra le colline dell’entroterra e le montagne
della penisola.
La città è fatta di cose che restano,
restano gli antichi muri pregni di vita
che non c’è più,
la gente per strada passando ti saluta,
come se ti conoscesse:
gente che si ferma, o che torna,
come gli ambulanti al mercato.
Le mirabili costruzioni
il tempo rovina.
Antichi alfabeti del gesto
d’improvviso si riaccendono, e rivivono.
Ma le strade e il torrente solcano la città
nella sua lunghezza
e tutto è movimento.
L’acqua scorre al golfo portando i veleni,
trattiene e mostra rifiuti,
prima di perdersi nel mare.
Ferrovia e strade sono per viaggiare.
Verso le zone più povere del Sud,
portano zingari e neri, indiani e arabi,
oppure genti
dai capelli biondi,
portano i popoli
a mescolarsi all’opposto Nord
nel crogiolo dell’altra, enorme città
a cui questa più piccola si unisce
a farne parte.
Il vulcano
sembra sorvegliare
dormendo, o interviene.
La piccola città
Carlo Di Legge
Poesie
Lo sai. Porta con te le carte
con le parole, anche insulse, scritte
nella tua comoda casa.
La poesia non nasce in salotto,
anche se potrebbe:
ma inizi come finisci una poesia
sull’area di servizio deserta,
pioviggina,
un automobilista che cambia una gomma
chiede i guanti
al benzinaio del servizio notturno,
che gli risponde picche: - signore, e lavati le mani!
Bisogna quasi sporcarsele, le mani
use alla scrittura, stando così vicino all’asfalto,
di ritorno da un luogo mai visto prima,
in auto, sostando, cerchi nella mezza luce
i cessi luridi,
e intanto nella testa ti frullano parole,
rientri in auto, non ancora riparti, annoti febbrilmente,
cerchi anche di dormire i tuoi cinque minuti:
ti conosci, e ne hai per ore, di autostrada.
Succede proprio così, è come
per un qualunque bisogno del corpo.
Già, l’insidioso come. Nient’altro
che l’analogia. Portale
con te dovunque,
le carte, la parola mancante verrà, altro che muse,
forse ti senti un idiota, e non hai tutti i torti,
sai che l’io non c’entra, ma sei
curioso, e disponibile.
E un po’ eccitato: ancora una volta
sei stato trovato.
3 gennaio 2017
Come si finisce una poesia
Carlo Di Legge
Poesie
Come di consueto anche quest'anno pubblichiamo il Bando del Premio di Laurea "Anna De Sio" per una tesi magistrale di argomento storico-religioso.
Tutte le informazioni sono contenute nel manifesto scaricabile al link sottostante.
https://www.orientexpress.na.it/x/image.asp?w=1000&i=1M891C5513
Bando Premio di Laurea - Anna De Sio - 2016
Redazione Orientexpress
News
Se forse fai cose straordinarie,
o anche se non fai nulla,
un altro ti vedrà e ti amerà.
Puoi anche essere un monaco, lontano dal mondo,
una mente che contempla l’assenza,
ma non perciò il buon dio ti aprirà una porta.
Non sarai salvo, se reciti mille preghiere.
Solo tra pari si stipula un contratto.
Hai questa vita,
non c’è altra speranza né certezza.
Ti basti l’esser nato.
Ma potresti vedere la verità:
in un solo istante
di chiaroveggenza senza merito,
proprio qui, dove sei,
come un brillìo di stelle lontanissime.
14.8.2016
Senza merito
Carlo Di Legge
Poesie
Nessuna possibilità di contatto dal villaggio,
adesso scende la calma dalle montagne in fondo.
Il tuo minuscolo regalo m’è caduto nella stanza,
subito mi sono detto: dev’essere un segno,
e l’ho lasciato dov’era.
Sembra che qui sotto la notte stellata
nessuno possa venire a trovarmi.
Siamo piccoli in questa trama,
non siamo neanche lo scintillare d’un istante,
la vita intera non è che un gesto di stella.
I nostri fili sono intrecciati nella grande rete,
fortuna e rovina hanno volti che non puoi discernere
e domani sapremo di un disastroso terremoto, non lontano.
Dici che progrediamo: è vero,
credo che da ogni punto si potrebbe camminare per lo smisurato,
ma per quanto somiglianti siamo diversi
come il giorno e la notte,
ognuno va dove gli riesce
e domani molti di noi non si sveglieranno.
Eppure, se è dipeso da noi, ci siamo sempre ritrovati:
qualcuno ritorna a prendere l’altro o si ferma ad aspettarlo.
Domattina il mio primo pensiero
sarà di cercare quel tuo piccolo dono.
22.8.2016
Notte stellata
Carlo Di Legge
Poesie
L’albero non è un nome.
Albero è toccare con mano la corteccia,
il sollievo dell’ombra,
è ascoltare il respiro, il vento tra i rami.
Le cose non sono i loro nomi.
Il nome non è che un’immagine,
al di là del nome sta la cosa.
Così per gli altri: ognuno ha immagini
d’ogni altro che conosca,
e infine questa immagine dell’io,
nome di nomi.
Credo d’essere io, non sono io.
Tutto il tempo così, come tutti,
tra memoria ed oblio, chiarirsi
e oscurarsi dell’io.
E mi lascio, a volte,
m’allontano da me.
Siamo tutti trovati da un attimo,
le solite cose scolpisce e pulisce un’insolita luce.
Ma non temo di perdermi. Aspetto.
Mi trovo sospeso nel vuoto dei nomi.
Risalendo
Carlo Di Legge
Poesie
Costituita in data 16 dicembre 2011, l’Associazione culturale “Anna De Sio” ha tra i suoi scopi quello di “promuovere la ricerca nell’ambito della storia delle religioni e dell'antropologia letteraria, nonché di tutte le tematiche filosofiche e storiche attinenti a tali aree” (art. 5).
Questa collana, che inizia col volume di Giuliana Scalera,
pubblicherà testi che analizzino problemi storico-religiosi senza fermarsi a un piano semplicemente descrittivo, ma mirando anche allo studio dei codici simbolici, dei mutamenti delle rappresentazioni e dei loro risvolti teorici.
Se è vero che non è possibile conoscere bene una lingua se non se ne conoscono bene la letteratura e la cultura, è altrettanto vero che non si può capire una cultura se non se ne è studiata la religione o le religioni che ne stanno alla base.
Più che mai in questo periodo, lo studio delle religioni e della Storia delle religioni appare fondamentale per rendere effettivamente possibili la reciproca comprensione e un dialogo costruttivo.
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Collana di Studi Storico-religiosi
Redazione Orientexpress
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